Piemonte e ponente ligure

Airole (IM): uno scorcio

L’influenza pedemontana sulla Liguria e specialmente su quell’area strategica di grande importanza che da sempre fu l’estremo Ponente Ligure risale a tempi remoti e – senza poter elencare tutte le circostanze – si può già citare a titolo proemiale l’influsso che le grandi case monastiche pedemontane ebbero in forza della loro espansione e su un tragitto di pellegrinaggi della fede dal Cenisio al mare di Ventimiglia (IM) dopo la sconfitta (alla fine del X secolo) dei Saraceni del Frassineto.

Le ragioni fideistiche si coniugarono presto con motivazioni temporali e commerciali legate al controllo di tratti importanti per le diramazioni delle vie dell’allume, delle spezie e soprattutto del sale.

Tra gli obbiettivi pedemontani e quindi sabaudi rientrava il controllo della via del Nervia, attesa l’asperrima Valle del Roia al cui terminale dopo l’esperienza certosina fungeva da guardia – con altre località – il centro di Airole di cui Ventimiglia si definiva “Consignora”.

Lo Stato Sabaudo si trovò con il tempo nella condizione di controllare la base navale di Nizza e quindi quello che sarebbe divenuto il Principato di Oneglia. Più lenta e graduale fu la penetrazione sabauda verso il mare di Ventimiglia di maniera che un punto cardine può esser giudicata l’assimilazione di Pigna di rimpetto alla quale stava la forte, genovese base di Castelfranco poi Castelvittorio (IM).

E’ nel XVI secolo che in Val Nervia gli equilibri assunsero una piega che si rivelò – specie col tempo – favorevole allo Stato Sabaudo. Lo scontro successivo all’omicidio (1523) del Signore di Monaco, perpetrato da Bartolomeo Doria dell’omonima Signoria di Dolceacqua e Val Nervia, si evolse con la reazione di Agostino Grimaldi, che conquistò il territorio del nemico al punto che, data la generale condanna dei vari Potentati, al fuggiasco Bartolomeo Doria non rimase altra soluzione che cedere i suoi possessi con atto di vassallaggio ai Savoia per esserne contesualmente investito. Tramite simile evento, nonostante la sostanziale autonomia della Signoria dei Doria, il loro possedimento, di indubbia valenza strategica, divenne un punto chiave nella valle per i rapporti tra la Repubblica di Genova e lo Stato Sabaudo che, dato l’atto di vassallaggio dei Doria, poteva comunque partire da una posizione vantaggiosa.

Ed è proprio nel XVII secolo che prendono corpo quei conflitti aperti tra Genova ed il Ducato Sabaudo che coinvolgono espressamente il Ponente di Liguria.
Il primo conflitto è databile al 1625. Le difficoltà di Genova non sono solo di rimpetto ad un nemico oggettivamente più interno, ma nel contesto del Ponente stesso già contrastato da varie problematiche, tra cui lo stato di perenne tensione tra ville e città nel contesto del Capitanato di Ventimiglia, aggravato da una rivolta popolare avverso la nobiltà locale, bensì anche l’inerzia di Genova e dei suoi comandanti militari a fronte di un nemico vincente. Ed è in siffatto clima che si predispone la congiura filosabauda che prende nome da Giulio Cesare Vachero.

Il secondo conflitto del 1672 è del pari connesso alle mire espansionisiche sabaude ed ancora ad una congiura antigenovese, capeggiata da Raffaello della Torre al fine di organizzare una rivolta in grado di abbattere il governo repubblicano genovese o quantomeno creare nel Dominio ligure un disordine bastante a poter conquistare l’importante piazza di Savona.
I provvedimenti presi da Genova per rinforzare Savona concorrono a capovolgere la situazione sino al punto che le forze sabaude entrano in aperta crisi e necessitano di un pronto intervento di ulteriori contingenti per riconquistare la perduta base di Oneglia.
A questo momento interviene la diplomazia ma nel suo contesto a testimonianza degli intrighi esistenti in seno alla Repubblica emerge anche l’ambigua posizione del pubblicista genovese Francesco Fulvio Frugoni – assunto per attestare le responsabilità dello Stato Sabaudo connivente con il della Torre – sul cui ondivago comportamento filosabaudo alcune cose si sanno anche in funzione di quattro sue lettere all’Aprosio.

La Savoia continuò più o meno occultamente a covare ambizioni di espansionismo in Liguria. La persistenza di contenziosi, più diplomatici che guerreschi tra Genova e Piemonte Sabaudo in effetti si manifestò sempre, seppur in forme men eclatanti, sui limiti di un contrastato confine. A titolo esemplificativo si può qui citare il caso nell’estremo Ponente dell’antichissimo possedimento monastico di Seborga, detto anche “Feudo della Seborga”, alla fine, nell’ambito di una questione tuttora assai controversa, assimilato dai Savoia – fra le opposizioni genovesi – per acquisto dalla Casa Madre.

La soluzione da parte della Serenissima Repubblica di Genova dei contrasti seicenteschi con il Piemonte Sabaudo sancisce però l’avvento di destini diversi fra le due Potenze (anche se non sempre intercorsero rapporti competitivi. Genova anzi accettò di ospitare la Corte Sabauda che portava con sé la Sindone quando Torino fu sotto assedio durante la “Guerra di Successione al trono di Spagna.

In effetti si stavano oramai aprendo nuovi percorsi al tempo e purtroppo alle guerre con l’insorgere di quei conflitti continentali e non solo destinati a fare del Piemonte una Potenza di rilievo, evolutosi al segno di pianificare l’Unità d’Italia grazie anche ad un’industria bellica avanzata e di rilievo esperita già dal ‘700.
Al contrario si dovette assistere alla graduale relegazione di Genova e del Dominio in un posizione geopoliticamente subordinata e di difficile neutralità, nonostante atti di valore come la rivolta – nominata dal “Balilla”- contro le vessazioni austriache. Del resto nell’ arco temporale in cui si decidono i destini d’Europa, e in parte del Mondo, la Repubblica si trova obbligata a risolvere con dispendio di energie gravi problemi interni come l’annosa questione del conteso Marchesato di Finale, ma anche – tra altre cose – a domare a Sanremo una rivoluzione popolare, duramente piegata con le armi e presupposto dell’erezione di un Forte alla Marina, come si legge qui nel “Manoscritto Borea” che indica anche le truppe scelte per controllare la popolazione della città.

E’ arduo dire se tutte queste difficoltà intestine, senza dubbio centrifughe e destabilizzanti, dell’antichissima e gloriosa Repubblica abbiano condizionato le scelte future in merito al suo destino. Fatto sta che non venne più restaurata – dopo tante illusioni ai tempi della Repubblica Democratica Ligure susseguente alla Rivoluzione Francese e alle gesta napoleoniche per cui caddero gli Stati del Vecchio Regime – quale “secolare libero Stato” – una volta finita l’esperienza napoleonica innovatrice certo ma nemmeno priva di responsabilità, a riguardo della gestione di quella che fu una Grande e Possente Repubblica – ma, piuttosto, in forza dei deliberati del Congresso di Vienna fu, tra lo sgomento di molti, assimilata quale possedimento del Regno di Savoia e quindi organizzata entro la “Grande Liguria delle Otto Province”, destinata abbastanza presto ad essere ridimensionata per la cessione di Nizza (con la Savoia) allo scopo di ottenere a fianco di Vittorio Emanuele II l’intervento di Napoleone III Imperatore dei Francesi nella II Guerra di Indipendenza presupposto basilare per l’Unità d’Italia.

da Cultura-Barocca

Antichi allevamenti nel ponente ligure

Uno scorcio di Val Nervia

Atti, geografia, ambiente, inducono a credere che, da sempre, la medio-alta val Nervia ebbe nell’oltregiogo il referente per approvvigionamento vaccino e che le aziende piemontesi tenessero sulla costa basi commerciali.
Le indagini hanno chiarito l’espansione territoriale della razza bovino-piemontese: fra XIII e XV sec. uno dei primi approdi dei produttori pedemontani della razza era in Ventimiglia dove gli animali eran commercializzati al porto vecchio del Nervia e soprattutto a quello nuovo del Roia per raggiungere altre destinazioni o essere macellati in loco per alimenti o conservazione. Sull’asse BreglioDolceacqua si son rinvenuti resti fossili che rimandano, secondo l’esame al C. 14, ad un arco cronologico di 20 secoli sì da confortare l’idea d’una via delle mandrie che dai tempi romani si snodava, tra Piemonte di Sud-Ovest e Liguria occidentale, nel fondovalle nervino: l’arco dei ritrovamenti scema, XIV-XV secoli al massimo, a proposito della diramazione da Dolceacqua per Airole e risulta insignificante per media e alta val Roia. L’interesse per questo percorso della transumanza non deve far dimenticare altri itinerari come quello Pigna-Saorgio.
Nel pignasco è un gruppo di case detto Brighetta, presso cui in una carta del 1760 era indicato un La Briga (di deriv.gallica, per “altura”) di Teglia (ligure medievale da tilia = tiglio) ora scomparso: forse Brighetta si connette con Briga Marittima donde, in inverno, i pastori scendevano per Buggio al mare, come risulta da pergamene del ‘300.
I rogiti del notaio di Amandolesio ragguagliano su pastori e mandrie pedemontane che giungevano alla costa per la strada del Nervia.
L’asse Tenda-Ventimiglia fu interessata, il 3-VI-1259, dalla commercializzazione d’una mandria di 575 capi di bestiame tra capre, immaturi e pecore, stipulata in carreria Merçarie della cittadina intemelia.
I contraenti erano Guglielmo Curlo Boveto di Ventimiglia e Guglielmo Ardizzone di Tenda (docc 61-62) ed il primo aveva soprannome di mestiere Bovetus (Boveto poi Boero = mandriano); significativo pare il toponimo Latte, alla confluenza sulla costa della trasversale dalla val Nervia pei siti del Roia e Bevera, ove si rinvennero tracce archeologiche di recinti per animali: nel ‘200 vi stavano diverse famiglie Vache (doc.243), più tardi evolutesi in Vacca cognome di mestiere attestato in tal luogo sin ad oggi [vedi anche sotto voce il De Felice e consulta (p.133, col. 2) il Catasto del territorio di Ventimiglia di metà XVI secolo laddove sono attestati tra i proprietari due esiti cognominali Vacha di personaggi residenti nel quartiere Ollivetto].
Il 2-V-1260 Rainaldo Bulferio Maior vendette a Raimondo Marchisio ed a Pietro Boso, pastori della Briga, 350 capi di immaturi e capre per 105 lire di genovini.
Il 16-V-1260, a Ventimiglia in carreria (doc.246) Rainaldo Bulferio ed i fratelli Oberto ed Ottone Agacie stipularono una soccida [contratto per l’allevamento del bestiame, secondo cui sorge società fra chi dispone il bestiame o soccidante ed il soccidario che lo prende per allevarlo con l’ accordo di dividersi gli utili) per lo sfruttamento di due vacche brune, di proprietà di Rinaldo, a partire dal prossimo carniprivio (domenica di quinquagesima da cui i chierici iniziavano il digiuno dalle carni) e per la durata di 2 anni = è comunque interessante analizzare la partizione che l’ottocentesco Codice di Napoleone il Grande fece del contratto della locazione a soccida].
Atti duecenteschi su pastori di Breglio, Gavi, Pavia, di Briga e Saorgio ma anche Chieri, Moncalieri, Pancalieri provano spostamenti di pedemontani sulla costa ligure sia per commercializzare il bestiame sia per organizzarvi attività mercantili e aziende agricole (Albintimilium cit., cap. II, 8 passim = G.C. GHINAMO, Problemi e prospettive del settore zootecnico da carne nel cuneese: la razza bovino-piemontese, Dissertazione di laurea a.a. 1988-9, Facoltà di Economia e Commercio, Università di Genova-Istituto di Economia e Politica Agraria, 1 copia dattiloscritta).
L’alta e media Val Roia, Tenda, La Briga, Saorgio (oggi: Saorge) e Breglio (attuale Breil) rappresentano un unicum di tragitti su Ventimiglia (v. T. OSSIAN DE NEGRI, Il Ponente Ligustico : incrocio di civiltà, Genova, 1974, p. 39 sgg).
Una carta del ‘700 (Ibidem, figg. 25-6) o Carta Generale del contado di Nizza ed il piano topografico del luogo di Saorgio indica però un’importante strada da Pigna a Castelvittorio e quindi Baiardo mentre dal rio Muratone si stacca una via che, per la displuviale di monte Alto tra Nervia e Barbaira, giunge a Dolceacqua e devia per Airole – Ventimiglia.
Nella carta risalta la planimetria di Saorgio allineato sulla cresta ed in parte sul pendio a precipizio del monte : al fondo fu segnata la Strada grande da Nizza a Torino ed a levante, non lungi dalla basilica di S. Bernardino, si rappresentò la Strada di Pigna: per essa i pastori giunsero sin ai primi del ‘900 ai pascoli d’alta valle del Nervia e da Lago Pigo molti di loro procedevano verso l’agro sanremasco e Triora.

I doc. di XIII-XIV sec. attestano l’esistenza in Ventimiglia di una CORPORAZIONE o “compagna” di macellarii. Il 18-I-1264 Ardizzone “macellario” si dichiarò debitore di Corrado Guarachio per 100 capi di bestiame, vendutigli per 30 lire di genovini, e sancì di saldare il debito entro la festa di S.Michele (di Amandolesio cit., doc. 603). La macellazione in Ventimiglia è documentata in un atto dello stesso notaio (doc.524, del 7-I-1263) quando i coniugi Giovanni Columberio e India si impegnarono a restituire 9 lire e 3 soldi genovini ricevuti in mutuo per acquistare bestie da macello. Dalla zona del Convento di Dolceacqua si raggiungeva Airole per raggiungere il porto sul Roia o l’agro di Ventimiglia. Questi percorsi trasversali, i tratti di edilizia romano-imperiale scoperti dalla Mortola a Latte sin a Bevera (luogo dall’idronimo emblematico per segnalare possibilità di abbeveraggio e dove nel XIII sec. erano insediamenti rurali, casali e stalle) inducono a credere che queste diramazioni fossero ancora più antiche, per il traffico bovino, di quanto affermino i reperti ossei. Secondo le superstiti fonti si può dire che nel ‘200 il traffico di mandrie fosse principalmente innestato sulla strada BreglioDolceacqua, con pascoli, bandite, e ricoveri in successione: dal sito dolceacquino donde si accedeva a Ventimiglia marciando in linea colla strada sì da aggirare a Nervia il castello di Portiloria nell’agro nervino a guardia della via di valle.
Sfruttando le deviazioni per le valli del Roia o del Verbone (Vallecrosia) si giungeva ai prati del Roia (area della stazione ferroviaria, ove si individuarono tracce di un pozzo medioevale), alla piazza per il commercio locale o marittimo del Convento S. Agostino (ove in quel tempo era una cappella di S.Simeone che serviva per il nucleo abitato ai fianchi della Rocca detta di Bastia o Bastita) e poi ai recinti di Latte, sui tratti della superstite via romana di costa, fra area intemelia e frontiera (Turbita, Castellaro il Vecchio, Villafranca, Monaco e Mentone.

Atto importante su transumanza e vantaggi economici procurati alla comunità dagli affitti per pedaggi, pascoli e bandite che i pastori pagavano a Gabellieri e Massari, risulta la convenzione stretta fra le comunità di Castrum de Doy (Castelfranco-Castelvittorio, nell’alta valle) e di Triora, del 13-VII-1280. Identificati i confini territoriali, il notaio Giovanni de Castro, coi deputati dei borghi, precisò nel rogito che “il comune di Triora e gli uomini di detto Castello debbano tenere e possedere in pace ed accordo le terre che son fuori di detti confini ed in esse possano far pascolare le bestie, lavorare, imporre tasse ai foresti, cacciare e fare qualsiasi altra azione pubblica…e che nessuna persona delle due comunità possa dar licenza ad alcun forestiero di pascolare, fermarsi o passare con bestie per tal terra senza l’autorizzazione di entrambe le comunità…”.
Si legge che “i prati degli uomini di Castrum Doy che sono e saranno in Langano, quelli che sono e saranno arati, segnati e disgregati e quelli che avranno voluto tenere arati per dieci anni senza frode siano Bandite dal primo di aprile sin alla metà del mese di Luglio oppure quelli che sieno stati tenuti per fienagione e taglio, una volta che questa sia avvenuta, sino al prato di S. Quirico. E se saran state trovate bestie in detti prati il loro padrone paghi per bannalità soldi cinque di giorno e due di notte se si sarà trattato di bestie piccole (capre, pecore) di numero superiore ed inferiore a dieci, per qualunque bestia grande il padrone pagherà due denari e se saranno buoi e vacche da cinque in più pagherà per bannalità quattro denari per ogni bestia e se sarà un mulo, un giumento od un asino un soldo” ( nel doc. compaiono altre figure giuriduche: dai conciliatori di controversie, uno per comunità, ai pastori servi al titolare della mandria, con elenco delle responsabilità).
Il documento (che il Rossi ricavò da una copia del XVII sec. del comune di Castelvittorio, e che trascrisse nel doc. XV della Storia del Marchesato cit.) non è importante solo per l’indicazione delle pene, degli obblighi dei pastori foresti o per l’indicazione globale che la zootecnia era caratterizzata da caprini ed ovini, bestie piccole, bovini, le bestie grandi, da animali di fatica come asini e muli ma riferisce un dato utile sui collegamenti tra Castelvittorio e Triora per una trasversale che dalla val Nervia procedeva (Nord-Est) verso Triora donde i pastori del taggiasco e del finalese si ritrovavano per procedere verso le bandite d’ alta valle nervina.
Dati zootecnici sull’alta valle si deducono poi dagli Statuti di Pigna del 18-XII-1575: alla rubrica 247 sono i Capitoli estratti dal libro vecchio dei Capitoli del XV sec.: alla 301 sotto la voce Limiti delle Alpi, vennero elencate ben 31 Montagne, destinate a bandite o pubblici pascoli a pagamento.
Si trattava dei monti Gordale, Lausegno, Canon, Pertusio, Aorno, Torraggio, Monte Maggiore, Avino, Ubago di Maria, Arvegno [per Orvegno], Ouri, Morga, Argelato, Bondone, Lonando, Monte Comune, Castagnaterca, Verduno, Veragno, Ubago, Fossarelli, Brassio, Peagne, Tanarde, Passale, Fontane, Preabeco e Giove. La sproporzione fra l’enorme area delle bandite e la popolazione, relativamente bassa, del borgo é prova che i pascoli pubblici ospitavano foresti sia per la transumanza che la commercializzazione delle “bestie” o dei prodotti sulla costa ligure. Come si evince da altri documenti del di Amandolesio l’evoluzione stradale-insediativa in vallata é databile al XII-XIII sec.: le Comunità d’alta e media valle ottennero buoni cespiti dall’affitto delle bandite e per il riparo stagionale di pastori ed animali nei ricetti coperti (terrissi) dai diritti di pedaggio, foraggio ed abbeveraggio delle mandrie.

da Cultura-Barocca

Antichi pellegrinaggi tra mare e monti

Da prima della romanità, nel complicato panorama di quegli ANTICHI ITINERARI che gli ingegneri di Roma avrebbero consolidato nel PIANO VIARIO GENERALE cui era sempre sottesa -in Liguria occidentale come in ogni parte del mondo conosciuto- una minore ma vitale RETE DI TRAGITTI ALTERNATIVI, un percorso ligure occidentale MARE-MONTI ha goduto di notevole continuità.
Le tracce di tale continuità si possono riconoscere tuttoggi attraverso un’analisi sul campo che permette il recupero di molteplici messaggi provenienti da epoche diverse.
Il percorso, nella sua continuità, fu già segnato in epoca preromana (e plausibilmente recuperato dalla regione ufficiale di Roma, per la presenza di BASI CULTUALI DI TRADIZIONE CELTO-LIGURE comunque connesse alla SPIRITUALITA’ della cultura ligure di tipo PAGENSE.
Risalendo questo percorso MARE-MONTI, che qualche studioso ha nominato VIA DELLE NEVI ci si imbatte in una continuità di stazioni di religiosità preromana indubbiamente collegate tra loro sia per via geografica sia -e questo soprattutto è importante- per evidenti affinità elettive.

Tracce archeologiche e toponomastiche di forme devozionali pagane si trovano a DOLCEACQUA (località SAN BERNARDO e SITO DI DOLCEACQUA DEL CASTELLO O BORGO ANTICO O “TERA” , sempre in VAL NERVIA presso il paese di ISOLABONA (ANTICA SORGENTE “GONTERI”) ed ancora in alta Valle, procedendo verso i gioghi da cui si accede al Piemonte, nel territorio tra i borghi di PIGNA e di CASTELVITTORIO ove si incontra una sorgente termale sicuramente frequentata in epoca arcaica e probabilmente rivisitata dai Romani: la FONTE DI LAGO PIGO.

Superata la barriera montana ed entrati in territorio pedemontano [operazione resa possibile dopo aver raggiunto su una direttrice viaria che proviene da BAIARDO paese con REPERTI ARCHEOLOGICI LIGURI PREROMANI DA CORRELARE AD ALTRI SCOPERTI NEL TERRITORIO DI DOLCEACQUA e dalle indubbie consonanze culturalie folkloriche di ASCENDENZA CELTO-LIGURE] si raggiunge un’importante base viaria nei pressi di BRIGA MARITTIMA: si tratta della importante stazione termale della CHIESA DI N.S. DI FONTAN dove le tracce di una base celto-ligure si intrecciano coi reperti di una stazione termale romana studiata da Padre Avena Benoit.

A prescindere che per tutto il tragitto MARE-MONTI DI VAL NERVIA, toponomasticamente ricorre -soprattutto per indicare monti ed alture- il nome del dio ligure *BELEN/BELENO, risulta interessante notare come al termine del lungo percorso, nell’agro di SUSA, si raggiunga alfine la NOVALESA -ove tra il corso del CENISCHIA e l’altura del ROCCIAMELONE [secondo le antiche CRONACHE sede ancora nel medioevo di PROCESSIONEI PAGANE DI ORDINE CELTICO] sono state recentemente individuate tracce di un antichissimo ANTICHISSIMO CULTO DELLE ACQUE (analogo a quello riscontrato nell’alta val Nervia nel sito di LAGO PIGO) mentre, proseguendo nel cammino, si raggiunge il borgo di FORESTO, nei cui pressi – e specificatamente nell’ORRIDO DI FORESTO – la leggenda cristiana, elaborando negativamente antiche credenze pagane preromane sviluppò il tema (vittoriosamente combattuto da ELDRADO ABATE DI NOVALESA (e quindi dalla tradizione apostolica dei BENEDETTINI) di un DRAGO DEMONIACO NASCOSTO NELLE ACQUE E CARNEFICE DEI VIANDANTI, POI UCCISO DA SAN MARTINO [fenomeno totalmente analogo a quello riscontrato nella cerchia delle Alpi liguri per quanto concerne l’emblematica montagna del TORAGGIO e la FONTE DEL DRAGO presso cui i BENEDETTINI avrebbero condotto e vinto una loro “storica battaglia” contro la SOPRAVVIVENZA DI CULTI PAGANI PREROMANI.


Tra i molti significati conferibili al “Pellegrinaggio di fede” si deve, anche attribuire, la VALENZA GEOPOLITICA di “strumento straordinario” per recuperare i TRAGITTI STORICI DELLA CIVILTA’.
Per riprenderne il “possesso” -secondo il gigantesco disegno inaugurato da GREGORIO MAGNO- cioè per riconquistare alla CRISTIANITA’ il complesso della geografia romana del mercato aperto e degli scambi, e quindi della pace e della prosperità, era necessario operare nel segno di una comunità di intenti, ridare cioè quei percorsi ad una CRISTIANITA’ UNITA .
La capillare lotta alle varie manifestazioni del DEMONIO – che contraddistinse dapprima i Benedettini per divenire retaggio dei Pellegrinaggi di fede- fu il mezzo fondamentale con cui si ottenne una assoluta quanto necessaria COMPATTEZZA ED UNIFORMITA’ DEL CRISTIANESIMO su aree geografiche smisurate, senza che si proponessero -sotto la spinta ideologica di antiche fede – DEVIANZE ERETICALI o MANIFESTAZIONI SCISMATICHE SCATENATE DALL’ISOLAMENTO GEOGRAFICO.
Ancora la Via Mare – Monti di Val Nervia nel Ponente ligure pare la cartina tornasole di questo schema operativo.
Prima ancora che i “Pellegrinaggi di fede” divenissero una gigantesca manifestazione del mondo cristiano, questo importante percorso -faticosamente riunito dall’apostolato dei Benedettini, era stato devastato dalle incursioni dei Saraceni sì che la gente, che da poco si era trovata riunita dall’operato prevalentemente della Chiesa, era nuovamente disunita dalle distruzioni.
Dopo la vittoria cristiana non pare affatto un caso che addirittura un VESCOVO DI VENTIMIGLIA abbia RICONSACRATO il tragitto VENTIMIGLIA – NOVALESA.


Popoli uniti da una fede sincera e compatta si sarebbero realmente sentiti SIMILI nonostante le grandi distanze che li separavano proprio su quella via: la lotta, comunemente, a fianco di Feudatari e Chiesa, combattuta contro i Saraceni li aveva riunificati nel nome del Cristo ma per non rendere vano quell’episodio (che nell’ottica religiosa del tempo era stata una lotta contro la negazione stessa del cristianesimo e quindi una lotta contro il “male”) non si doveva in alcun modo più tralasciare l’eterno duello contro gli inganni del MALIGNO che nelle sue molteplici manifestazioni (e quella dei “Saraceni” sarebbe stata solo una fra tante) mirava, e nei tempi sempre avrebbe mirato, all’unico modo di trionfare sulla Cristianità, con l’inganno più antico, quella di dividerla e farla divorare dagli scismi, gli errori che portano alla dannazione in cielo ed all’odio in terra.
E sotto questa prospettiva geopolitica davvero il PELLEGRINAGGIO, più che per le pur straordinarie mete cui era indirizzato, aveva enorme importanza per quel flusso continuo di fedeli, per quella marea di gente di terre lontanissime che, al di là delle etnie, degli usi e dei costumi, si sentiva unita nel nome delle fede cristiana e che, in nome di questa fede, aveva preso POSSESSO CONTINUATIVO DEGLI ANTICHI PERCORSI, rendendoli sicuri non solo alla Cristianità ma a tutto il futuro sviluppo del “Mondo Civile” ormai in rinascita.

da Cultura-Barocca

 

Pedaggi, pascoli e bandite in Alta Val Nervia

Il Monte Toraggio visto da Castelvittorio (IM)

Atto importante su transumanza e vantaggi economici procurati alla comunità dagli affitti per pedaggi, pascoli e bandite che i pastori pagavano a Gabellieri e Massari, risulta la convenzione stretta fra le comunità di Castrum de Doy (Castelfranco-Castelvittorio, nell’alta valle) e di Triora, del 13-VII-1280. Identificati i confini territoriali, il notaio Giovanni de Castro, coi deputati dei borghi, precisò nel rogito che “il comune di Triora e gli uomini di detto Castello debbano tenere e possedere in pace ed accordo le terre che son fuori di detti confini ed in esse possano far pascolare le bestie, lavorare, imporre tasse ai foresti, cacciare e fare qualsiasi altra azione pubblica…e che nessuna persona delle due comunità possa dar licenza ad alcun forestiero di pascolare, fermarsi o passare con bestie per tal terra senza l’autorizzazione di entrambe le comunità…”.
Si legge che “i prati degli uomini di Castrum Doy che sono e saranno in Langano, quelli che sono e saranno arati, segnati e disgregati e quelli che avranno voluto tenere arati per dieci anni senza frode siano Bandite dal primo di aprile sin alla metà del mese di Luglio oppure quelli che sieno stati tenuti per fienagione e taglio, una volta che questa sia avvenuta, sino al prato di S.Quirico. E se saran state trovate bestie in detti prati il loro padrone paghi per bannalità soldi cinque di giorno e due di notte se si sarà trattato di bestie piccole (capre, pecore) di numero superiore ed inferiore a dieci, per qualunque bestia grande il padrone pagherà due denari e se saranno buoi e vacche da cinque in più pagherà per bannalità quattro denari per ogni bestia e se sarà un mulo, un giumento od un asino un soldo” ( nel doc. compaiono altre figure giuriduche: dai conciliatori di controversie, uno per comunità, ai pastori servi al titolare della mandria, con elenco delle responsabilità).
Il documento (che il Rossi ricavò da una copia del XVII sec. del comune di Castelvittorio, e che trascrisse nel doc. XV della Storia del Marchesato cit.) non è importante solo per l’indicazione delle pene, degli obblighi dei pastori foresti o per l’indicazione globale che la zootecnia era caratterizzata da caprini ed ovini, bestie piccole, bovini, le bestie grandi, da animali di fatica come asini e muli ma riferisce un dato utile sui collegamenti tra Castelvittorio e Triora per una trasversale che dalla val Nervia procedeva (Nord-Est) verso Triora donde i pastori del taggiasco e del finalese si ritrovavano per procedere verso le bandite d’ alta valle nervina.
Dati zootecnici sull’alta valle si deducono poi dagli Statuti di Pigna del 18-XII-1575: alla rubrica 247 sono i Capitoli estratti dal libro vecchio dei Capitoli del XV sec.: alla 301 sotto la voce Limiti delle Alpi, vennero elencate ben 31 Montagne, destinate a bandite o pubblici pascoli a pagamento.
Si trattava dei monti Gordale, Lausegno, Canon, Pertusio, Aorno, Torraggio, Monte Maggiore, Avino, Ubago di Maria, Arvegno [per Orvegno], Ouri, Morga, Argelato, Bondone, Lonando, Monte Comune, Castagnaterca, Verduno, Veragno, Ubago, Fossarelli, Brassio, Peagne, Tanarde, Passale, Fontane, Preabeco e Giove. La sproporzione fra l’enorme area delle bandite e la popolazione, relativamente bassa, del borgo é prova che i pascoli pubblici ospitavano foresti sia per la transumanza che la commercializzazione delle “bestie” o dei prodotti sulla costa ligure. Come si evince da altri documenti del di Amandolesio l’evoluzione stradale-insediativa in vallata é databile al XII-XIII sec.: le Comunità d’alta e media valle ottennero buoni cespiti dall’affitto delle bandite e per il riparo stagionale di pastori ed animali nei ricetti coperti (terrissi) dai diritti di pedaggio, foraggio ed abbeveraggio delle mandrie.

da Cultura-Barocca

Frantoi, beodi…

Scorcio di Val Nervia (IM): il Monte Toraggio visto dalla Località Bunda di Isolabona (IM)

Gli STATUTI del borgo di Apricale (IM) in Val Nervia e vari rogiti del notaio di Amandolesio dimostrano che la coltivazione degli olivi era abbastanza diffusa nella Liguria ponentina del XIII sec. anche se molti elementi inducono a far credere che la diffusione dell’olivicoltura nel Ponente ligure [nella romanità secondo una teoria non unica ma egemonica si sarebbe prodotto solo un OLIO DA COMBUSTIONE (usato in particolare per lucerne e lampade come anche sostenuto dal Molle) e si sarebbe importato da Provenza e Spagna (opinione che fa invece differire la Pallarés che opta per una decisa commercializzazione dalla Penisola Iberica rispetto alle idee del Molle che previlegiava una principale “provenienza provenzale”) soprattutto, quello alimentare almeno fin a metà III sec. per poi optare verso il prodotto africano: così almeno secondo l’interpretazione della nota studiosa] sia in gran parte da ascrivere, verso la fine del I millennio cristiano, all’opera agronomica dei Benedettini (che ne fecero – senza sottovalutare plausibili relazioni con il Monachesimo di Lerino- dapprima una sorta di monopolio all’interno del sistema della grangia o fattoria monastica con lo sfruttamento di terreno secondo la coltura su terreni a fasce ottenuti con la tecnica dei muri a secco) di Pedona prima e di Novalesa poi ( Albintimilium…cit., p. 221 e nota ).
A questo punto stante l’attribuzione ai Benedettini dell’impianto medievale dell’olivicoltura (sarebbe il caso di dire senza trascurare nel settore l’esperienza addotta dal monachesimo di Lerino viene spontaneo porsi il quesito, a prescindere dalla soluzione della “grangia”, come abbiano oprato i monaci sotto il profilo squisitamente agronomico, data la disponibilità di piante selvatiche in loco (oleaster = oleastro) e l’esigenza di migliorare il prodotto ricavabile in direzione del vero e proprio olivo (vedi qui anche una rassegna di immagini antiquarie dell’olivo, della raccolta delle olive, dei frantoi, dei beodi, delle norie ecc. ecc.).
Attraverso lo scorrere del tempo e certo rimanendo sempre nel campo delle teorie non è da escludere che i Benedettini abbiano provveduto all’innesto degli “Ulivi” sugli “Ulivastrelli selvatici” (Oleastri) senza dubbio con un fare assai più sperimentale ma in qualche maniera in consonanza con la maniera di cui scrive (distinguendo la maniera d’oprare anche nel procurarsi gli “Ulivastri” ora seminandoli (p 110) ora invece reperendoli in natura e specie nei boschi (p. 111)) nel Capitolo III del suo Trattato degli Ulivi (opera che risulta contenuta all’interno del monumentale lavoro dal titolo Cosimo Trinci (XVII – XVIII sec.) l’agronomo un tempo celebre Cosimo Trinci = vedi qui “L’agricoltore sperimentato…” [Venezia 1796: VI ed. accresciuta della celebre opera di agronomia L’agricoltore sperimentato, opera di Cosimo Trinci, pubblicato da Pier Salvatore, e Gian-Dom. Marescandoli, 1726 (vedine qui gli Indici Moderni) = il Trinci risulta sempre molto oculato, anche in forza delle varie tavole che mette in ogni settore a disposizione del lettore ( vedine qui alcune a titolo esemplificativo) = e ora qui per comodo dei lettori che intendano districarsi in questo campo si elencano dal Trattato degli Ulivi i cari capitoli qui digitalizzati ed informaticamente proposti da testo antiquario: * – Capitolo I: Del modo, e tempo di far Vivaj, o conservatoj d’Ulivi, e prima di quelli di Uovoli, o Puppole – * – Capitolo II: Del modo, e tempo di far Vivaj, o sieno conservatoj di rami d’Ulivo – * – Capitolo III: Del modo, e tempo di far Vivaj, o sieno conservatoj d’Ulivastrelli selvatici, che nascono dal seme – * – Capitolo IV: Del modo, e delle regole più sicure per mettere all’ordine il terreno per la Coltivazione degli Ulivi – * – Capitolo V: Del modo, e tempo di svellere gli Ulivi dal Vivajo; e piantarli nelle Coltivazioni. – * – Capitolo VI: Del modo, e del tempo di piantare gli Ulivi, detti Piantoni, che si staccano dalle Ceppaje, o barbicaje degli Ulivi grossi – * – Capitolo VII: Del modo di coltivare, e allevare gli Ulivi il primo anno dopo piantati – * – Capitolo VIII: Del modo di coltivare, e allevare gli Ulivi, finchè non saranno d’età di quattro, o cinque anni. – * – Capitolo IX: Del modo di coltivare gli Ulivi passata che abbiano l’età di quattro, o cinque anni, fino a che durano – * – Capitolo X: Del modo di tagliare gli Ulivi, se mai per il gran freddo seccassero: con la Storia di alcune straordinarie seccagioni di Ulivi accadute in Toscana – * – Capitolo XI: Del tempo di raccogliere l’Ulive, e del modo di ben conservarle, e stagionarle. – * – Capitolo XII: Del modo di conservare l’olio, accio non prenda di rancido, nè di altri cattivi odori, o sapori; e del modo, e del tempo di travasarlo per mantenerlo perfetto

L’olivicoltura divenne comunque già a metà del ‘200 attività agricola “aperta” in Val Nervia anche se in effetti assunse pressoché contestualmente rilevanza storica in tutto il ponente, sin a diventare una monocoltura da esportazione col conseguente rischio che, per carestie o cattivi raccolti o malattie delle piante, le comunità, senza altre fonti di guadagno si dovessero impoverire con indebitamenti gravi.
Attorno all’olivicoltura fiorì un’attività manifatturiera complessa in cui tutto era sfruttato, fin alle sanse ed ai residui, con una regolamentazione capillare che spesso coinvolgeva gli operatori di mulini e frantoi, che potevano essere “ad acqua” (sfruttando la forza idrica incanalata nei “gombi”) od “a sangue”, secondo la prevalente tecnica romana, sfruttando la fatica di animali adattati a far ruotare i meccanismi delle macine con la loro forza muscolare: un pò in tutti i paesi delle valli sorgono enormi testimonianze della “civiltà e della cultura dell’olio” di cui Dolceacqua costituisce certo un esempio storico di primaria importanza (ma non si dimentichi la tradizione storica di tanti altri siti di rilevante attività molitorio in queste ed altre contrade, come in valle Argentina [area di Taggia]: da Pompeiana a Castellaro a Molini di Triora).
Secondo il MOLLE si può pensare (ma non tutti CONCORDANO su tale ideazione) che i Massalioti abbiano introdotto, verso il IV sec. a.C., la coltura della vite e dell’olivo in Liguria occidentale: anche se non è da prendere del tutto alla lettera quanto in merito, anche troppo entusiasta d’ogni iniziativa dei Greci antichi, scrisse Pompeo Trogo (nelle Historiae Philippicae pervenuteci nel compendio di JUSTINUM, XLIII, 4): et unum vitae cultiores, deposita et manufacta barbarie et urbes moenibus cingere didicerunt. Tunc et legibus nove annis vivere, tunc et vitem putare tunc olivam serere consueverunt.
Strabone parlò pure del vino ligure e lo ritenne scadente per l’aridità della terra che non nutriva a sufficienza i vitigni (ed in realtà non doveva essere davvero buono se, come egli disse, gli stessi liguri gli preferivano ancora la BIRRA!). Il geografo greco elogiò invece il miele ligure, ricordando poi, oltre a varie qualità di ortaggi, la coltura della segala, del miglio e dell’orzo.
A suo dire era diffusa la pastorizia, specie nelle valli e sulle montagne: ne possiamo dedurre l’importanza del latte e dai suoi derivati per le antiche genti di Liguria.

Un’ interpretazione alternativa a quelle “storiche” sviluppate sulla coltura dell’olivo in Liguria occidentale è in qualche modo “figlia” di un saggio di P. Garibaldi e P. Sacco (Olivicoltura e commercio oleario antico tra Ponente ligure e Francia meridionale in “Rivista Ingauna Intemelia”, LI, 1996 – 1998).
Gli autori vi citano la vicenda di un commercio oleario molto antico tra Ponente di Liguria e la Provenza: un interscambio storico che alla fine avrebbe favorito la coltura dell’olivo nel Ponente ligustico.
La loro ipotesi è stata in tempi recentissimi ripresa abilmente da C. Eluère in un dotto saggio (su “Intemelion – cultura e territorio”, n.5, 1999, pp.151 – 163) dal titolo Le “pietre olearie” di Pigna: un incontro tra l’antichità e la tradizione?.
Quest’ultimo studioso, integrando le osservazioni di quanti l’hanno preceduto, si sofferma su alcune riflessioni tanto intelligenti quanto sostanziali: tenendo conto a suo dire dei rilevamenti di stabilimenti oleari in Provenza (J.P. Brun, L’oléiculture antique en Provence, in “Revue Archéologique de Narbonnaise”, aupplément 15, 1986) e nella Ligura levantina (A.Bertino, Villa romana del Varignano (La Spezia): un oleificio di 2000 anni fa, costruito nell’età imperiale, il più antico della Liguria, in “Archeologia in Liguria”, 1976, 1984, 1990) l’autore ipotizza che la liguria ponentina non abbia costituito una sorta di isola, cui era estranea l’olivicoltura, ma potesse costituire parte di un unicum colturale proprio dell’intiero arco ligure storico.
Le affermazioni dello studioso sono condivisibili in linea di principio, tenendo conto dell’impressionante succedersi di rilevamenti di aziende rustiche di epoca romana soprattutto imperiale ridisegnato, tramite vari contributi, per l’occidente ligure e specificatamente per l’importante area rurale della VALLE DEL NERVIA.
Anche per C. Eluère la Valle nervina ha finito per costituire un punto di riferimento per l’evoluzione dei suoi studi: in particolare egli si è soffermato a studiare una porzione valliva, quella identificabile come ALTA VALLE DEL NERVIA peraltro ricca di insediamenti rurali romani a suo tempo variamente segnalati: vedi qui Guida di Dolceacqua e della Val Nervia.
Le osservazioni di C. Eluère (cui si rimanda il lettore interessato) sono però ben fondate su una serie di interessanti ritrovamenti e per questo acquisiscono una valenza culturale significativa.
Le riflessioni sono infatti sviluppate dallo studioso in chiusa di una sua indagine sul campo, in merito al ritrovamento di “pietra olearie” nell’agro di PIGNA in alta valle del Nervia.
L’autore ha analizzato tutte le PIETRE OLEARIE (sostanzialmente pietre di torchio arcaico) in alcuni siti nei quali, diversamente, si sono avuti altri ritrovamenti di insediamento umano, rurale e specificatamente di ambiente culturale romano.
Precisamente si tratta di 2 pietre scoperte nella località OURI, di 1 verisimilmente proveniente dalla località VERDUNO e di 2 pietre ancora nel sito rurale che prende il nome di CARNE dal rio che l’attraversa.

Il Formentini (in Studi velleiati e bobbiesi, La Spezia, 1938, p. 25) citò un diploma di Carlo Magno, datato 5 giugno 774, con cui in qualità di rex Longobardorum concedette a Guinibaldo, abate di Bobbio, un podere con oliveto sulla via del Bracco (anticamente Petra Calice).
Nella ricordata concessione del vescovo Teodolfo (X sec.) l’olivo viene menzionato accanto ad altre qualità di piante e di alberi; questo però e l’unico documento dell’epoca che ne registra sì antica presenza nel Ponente ligustico.
Infatti in un successivo atto (4-VII-1049 ma forse correggibile al 1036-1038) con cui Adelaide di Susa donò al monastero genovese di S. Stefano il fondo Porciano (S. Stefano), nonostante la quantità di elementi, piante, coltivazioni citate, l’olivo non compare.
La coltivazione intensiva dell’olivo e lo sfruttamento artigianale dell’olio (su cui, a livello generale, una fra le prime opere scientifiche fu quella settecentesca di Pietro Vittori) sono databili alcuni secoli dopo: la coltura si affermò a livello intensivo dal pieno ‘500 mentre tra fine XV e primi del XVI secolo non era ancora particolarmente diffusa pur se, a riguardo dell’areale della val Nervia sia negli atti del notaio di Amandolesio non mancano citazioni di terre coltivate ad olivi (in particolare quelle del caso di una vedova di Dolceacqua, certa Benvenuta -XIII secolo- che possedeva, oltre a varie altre terre a differenti specializzazioni agricole, alcune piantagioni di olivi) sia, ancora, entro gli Statuti del borgo di Apricale alla Rubrica 38 si leggono precise norme contro i furti perpetrati a danno degli olivicoltori.

Su questo argomento concorrono utilmente le rilevazioni fatte da Fausto Amalberti nel suo saggio Popolazione di Soldano nel secolo XVI ed ancor meglio quello di Beatrice Palmero nel contributo Proprietà catastale e struttura familiare (pp.161-162): entrambi i lavori sono stati editi nell’opera Il Catasto della Magnifica Comunità di Ventimiglia…(1545 – 1554).
Grazie alla sua più estesa ed organica visione dei problemi la Palmero sviluppa un esaustivo piano comparativo sulla diffusione dell’olivicoltura nel Ponente ligure, sottolineando però con cura un’anticipazione della coltura e dell’annessa civiltà dell’olio propria delle valli di Diano.
La studiosa sulla base dello strumento notarile, appunto il Catasto, arriva a segnalare una modestia tale della coltura nell’agro intemelio da giustificare sia l’importazione del prodotto dalla Provenza sia il principio che tra metà 1200 e metà XVI secolo l’incremento dell’olivicoltura, a fronte delle colture predominanti della vite e dell’olivo, non avesse fatto registrare alcun significativo incremento.
Sempre Beatrice Palmero riporta per esteso le terre dell’amministrazione intemelia che, sulla base del catasto, risultavano poste a olivicoltura: una terra ad Airole (in località Pian) di cui era titolare un certo Jancherius, una a Bordighera in località Ponte di un Gerbaldus, una a Borghetto di certo Aproxius, una a Vallebona (località Toria) di un Pallancha, una appartenente a tutta la comunità di Soldano (Universitas Soldani) in località Sagrao, una ancora a Vallebona di tal Allavena in località Savel, sempre a Vallebona un’altra di tal Guillelmus in luogo Cazetta, di nuovo a Vallebona, del Guillelmus, un’altra terra ad olivi in zona Vallon de Vi, sempre a Vallebona la terra olivata Pian de Lora di certo Arnaldus ed ancora, nello stessa villa, le terre di Iancherus in località Savel, di Leonus in zona Chiaforno, di un Pallancha in sito Fontana.
Il facile calcolo fatto dalla studiosa registra quindi un il numero di 10 oliveti e calcola successivamente un numero ancora limitato di frantoi, una ventina circa, a fronte degli oltre 30 mulini necessari alla Comunità per la macinazione del grano di autoconsumo.
Secondo l’Amalberti, e sulla base di una sua condivisibile constatazione, proprio dalla metà del ‘500 (periodo di stesura del catasto) l’olivicoltura registra la sua crescita: il ricercatore d’archivio ci rende edotti di alcuni dati interessanti che evince dall’Archivio di Stato di Genova (Notai Antichi, n. 1808 bis, notaio Stefano Berruto).
Tra i segnali del sempre maggior valore attribuito ai campi posti a coltura di olivi egli adduce, per esempio, un atto del 1524 col quale tal Domenico Fenoglio di Isolabona vende 35 rubbi di olio ad Antonio Orengo di Ventimiglia ed un altro ancora, del 1532, per cui Luigino Moro di Apricale che accusa un debito di 10 scudi nei confronti di certo Francesco Massa di Ventimiglia si impegna a saldare il suo debito in natura e specifatamente con una convenuta quantità di olio.

E’ comunque curioso ricordare che, alla origine della sua storia moderna, la pianta serviva frequentemente da recinzione delle proprietà, per lo più lavorate a colture tradizionali (intarziato ).

La lavorazione degli olivi ha una sua chiave di lettura nell’analisi dei documenti notarili riguardanti i più antichi FRANTOI (MULINI AD OLIO/ AEDIFICIA/ U DEFISSIU) noti nel PONENTE LIGURE e destinati attraverso i secoli ad un CONSISTENTE SVILUPPO.
Uno dei primi FRANTOI venne menzionato in un atto del 28-XII-1205 per cui un certo Bonaventura Marzano di Ardizzone cede all’abate di S. Stefano un fondo di Villaregia, a pagamento di un legato di 19 soldi (è anche nota l’esitenza di un processo di molitura svolto secondo la tecnica della NORIA o POZZO A SANGUE con trazione animale: in epoca romana esistevano parimenti i frantoi ma la spremitura delle olive (a differenza di quanto accadeva per il grano spesso macinato in complesse aziende di molitura: un esempio industriale si legge archeologicamente ad ARLES dove si è ricostruita un’INDUSTRIA DI MULINI OPERANTI IN SEQUENZA per realizzare -sfruttando un’EVOLUTA TECNOLOGIA un grande quantitativo prodotto da commerciare) avveniva per mezzo di TORCHI mossi dall’uomo o attivati per trazione animale, detti mulini a sangue”.
Nel documento, studiato da N. Calvini – A. Sarchi (op cit., pp. 56-57 e 125) e conservato nell’ Archivio di Stato di Genova (Ab. S. Stefano, 1509, m. II, fasc. perg. 161, indizione genovese), compare la frase “… usque ad Gombum per rectam lineam , dove il GOMBO veicolato sino ad oggi a livello dialettale, è sinonimo di mulino da olio: la forza motrice, con l’evolversi delle tecniche, prese ad essere fornita, sia per i mulini che per i frantoi, dall’incanalamento delle acque per via di veri e propri ACQUEDOTTI (BEODI) di cui rimangono tracce, anche monumentali, come nel caso di questo, i cui considerevoli reperti si trovano a Pompeiana in località Loghi.
Solo più tardi entro nell’uso aedificius ab oleo, che l’etimologia popolare ha poi deformato nel dialettale u defissiu.
L’uso dell’espressione edificium ab oleo (con aferesi della A iniziale) è riscontrabile in scritti del XV secolo, come quello che regolarizza la divisione confinaria tra le chiese di Pompeiana, Lingueglietta e Riva (A.S.G., Ms. Perasso, manoscritti 843, p. 270).
Per rilevare i rapporti di sinonimia tra frantoio ed i suoi equivalenti ligustici è interessante riportare un inedito documento (12-V-1692) redatto nei locali della Confraternita dello Spirito Santo (detta anche Congregazione della Carità) di Pompeiana.
Si tratta dell’enunciazione di un ricorso, accolto dalla Marchesa Teodora Spinola, contro i Gombaroli rei di trattenere, contro le norme prefissate, le sanse.
Nell’atto si legge: ” … Sig.i dovete sapere che essendo stato fatto ricorso dai nostri predecessori all’Ill.ma Sig.a Marchesa Teodora Spinola per caosa che dalli Gombaroli osij fitavoli dell’edificij d’oglio del presente luogo ci vengono usurpate le sanse delle olive che d’ogn’uno del presente luogo si mandano a frangere alli Gombi suddetti con supplicarla che dovesse ordinare a Gombaroli osij fitavoli che dovessero puntualmente restituire e consignare a ogni persona le sanse predette doppo cavarne l’oglio secondo il solito…”.

da Cultura-Barocca

Isolabona, nodo strategico viario presso cui si poteva deviare continuando per la Valle del Nervia

Regione Bunda, verso Pigna

Insulae (ISOLE) di materiale alluvionale costituivano ripari per imbarcazioni e attracchi per commercializzare i prodotti vallivi (per questo esse furono spesso al centro di controversie: avevano peraltro rilievo per le colture che vi si praticavano e i mulini costruitivi: ISOLABONA nel Nervia, l’Isola dei Gorreti nel Roia sopravvissute ad oggi son prova dei depositi stabili, destinati a grande evoluzioni).

Ruderi della Cartiera

Il 3-I-1287, nell’atto di annessione amministrativa di ISOLABONA ad Apricale, il toponimo oscillava tra “Insula” e “Insula Bona” (= “Isola Buona” come “Salda, robusta, fidabile, perenne”).
Nei Diritti dei Doria (1523) il paese, alla confluenza fra Nervia e rio Merdanzo, aveva il toponimo “Insula” mentre a livello popolare il nome “Insula Bona” aveva preso il sopravvento (le isole delle foci, per quanto più esposte a cambiamenti geomorfologici, erano comunque di volta in volta punti di riferimento viario o strategico).
I “Diritti della Signoria dei Doria di Dolceacqua del 1523″ sancirono i privilegi nobiliari, tasse, gabelle, proprietà varie e lo jus di pedaggio.
Secondo gli “Jura” i Doria ad Isolabona (oltre che bandite, mulini, frantoi, giurisdizione degli acquedotti e delle fonti) tenevano un CASTELLO, una CARTIERA, una “casa” nel “piano ovvero piazza dell’isola, con un’altra stalla presso detta casa”.
I Doria possedevano poi un “campo”, in località “lo chian de la noxa” affittato a tal Giacomo Cane con un contratto che prevedeva l’esborso annuo in natura di 5 mine e 6 quartari di prodotto agricolo.
La Signoria possedeva “un prato in località S. Giovanni”, un altro in luogo “la morinella” ed “un altro ancora in località Gonteri“.

La vallata verso Apricale

Erano altri beni dei Doria un bosco di castagni “in luogo detto Ortomoro” (il toponimo par rimandare ai tempi dei Mauri, Mori e Saraceni) sulle alture di Isolabona, condotto da Giovanni Roberto e Giovanni Boero, che pei Signori gestivano anche la “fascia curla” (che prendeva nome da un antico possesso della nobile famiglia intemelia dei Curlo) nel territorio di Apricale.
La Signoria, secondo i dettami dei suoi DIRITTI, teneva, sempre nelle vicinanze di Isolabona, un “mulino grande” con la potenzialità di “centoventi mine buon grano ed 80 di grano di mistura“.

Essa aveva anche il possesso di tutti i frantoi, gli “aedifica oleorum“, e gli abitanti del luogo (non solo gli addetti alla olivicoltura) eran tenuti a portar solo lì “a frangere” le olive ed a non valersi di mulini fuori giurisdizione.

La tassa da pagare era della dodicesima porzione del prodotto e della totalità delle “sanse“: l’atto rimanda ad un’antica consuetudine ed è quindi giusto pensare che l’industria olearia, colla sua peculiare giurisdizione, si perdesse nel monopolio dei primi Benedettini.
Questa convinzione trova conforto dal capo successivo dei Diritti laddove viene precisato che i “Signori” avevano “da sempre” la totale “giurisdizione delle acque“: in modo tale che nessuno , tranne naturalmente il Signore, potesse edificare o costruire “molendina” (mulini per granaglie) o qualche altro aedificium” (frantoio)”.

Cenni storici sulla coltura della vite nell’estremo ponente ligure

Il torrente Nervia a Dolceacqua (IM)

La coltura della vite dall’epoca medievale (in effetti esistono segnali ma ancora troppo vaghi per quanto concerne il periodo romano) fu una costante (per quanto l’ambiente potesse venir danneggiato da calamità varie con conseguente carestia) dell’agro della valle che prende nome dal torrente che l’attraversa, il Nervia (e seppur in misura minore di tutto il contado intemelio, compresa la diramazione occidentale e soprattutto quella levantina).
Nei documenti più antichi [ben studiati da Laura Balletto ma sempre suscettibili di qualche utile integrazione critica] riguardanti l’agro nervino e soprattutto la sua piazza più importante, quella di Dolceacqua (XIII-XIV secolo) la viticoltura (praticata sull’esperienza della grangia benedettina secondo la tecnica architettonica popolare dei muri a secco ideale per recuperare spazio coltivo nelle ridotte proprietà dell’economia curtense ligure) risulta menzionata nei documenti notarili in maniera frequente: la si trova citata sia in atti che riguardano privati cittadini sia il potere ecclesiastico che la vera e propria autorità signorile [peraltro proprio i Signori di Dolceacqua, cioè i Doria, realizzando una via alternativa per raggiungere un loro approdo nell’agro di Ospedaletti e non pagare pedaggio alla Comunità di Ventimiglia, al fine di attraversarne l’agro e raggiungere i porti del Nervia o del Roia, ci testimoniano, più o meno direttamente, che nel XIV secolo il loro dominio sfruttava già commercialmente la buona produttività nei settori agricoli dell’olivicoltura e della viticoltura].
Non mancano comunque utili segnalazioni per quanto concerne altre zone a prevalente carattere rurale come alcune vallicelle periferiche (interessante il caso del vino di Latte) o, sempre a titolo esemplificativo, in prossimità del centro medievale la zona del rio Resaltello: per non dimenticare, procedendo verso levante, l’importante agro pianeggiante di Nervia, la sua naturale prosecuzione nell’agro di Campus Rubeus, il complesso ed enigmatico sistema geografico dell’Armantica/ Almantiqua, diversi siti agricoli e zone rustiche duecentesche dall’odierna località dei Piani di Vallecrosia all’agro di Soldano od ancora l’importante area geopolitica in cui si sarebbe successivamente evoluta la quattrocentesca villa di Bordighera.
Il vino era commercializzato sulla piazza intemelia ma purtroppo non si recupera dagli atti alcuna notazione (se del tipo bianco, rosso, rosato) : soltanto, qualche volta, viene segnalata la zona agricola di provenienza o di produzione.
Si trattava comunque di buon vino da tavola, esportato “a Savona, Arenzano, Voltri, Genova e Chiavari“: dopo esser stato imbarcato su navi di vario tipo [comunque soprattutto bucii e quindi leudi] sia all’approdo del Nervia che al porto canale mercantile del Roia).
La vendemmia era precoce ed i vini nuovi comparivano a fine luglio mentre la massa della vinificazione si teneva già a metà di settembre (non essendo ancora avvenuta l’adeguazione gregoriana del calendario esisteva una sfasatura di dieci giorni fra la stima calendariale e quella astronomica).
Botti di varia dimensione e capacità, spesso di pregiato rovere, conservavano il prodotto: nel XIV sec. la commercializzazione del vino di val Nervia sul mercato locale e regionale giunse a 160.000 litri (appena un secolo prima – di Amandolesio, cart. 56-7, annata 1258/9 – a tal quantità era giunto tutto il territorio intemelio compresa la val Nervia, mentre la cifra, dall’annata seguente – a 20.742 litri -, cominciò progressivamente ad incrementare).
Solo nel ‘400 il vino avrà la denominazione di vermiglio (vin vermiglio) ma basandosi ancora su tecniche generiche di identificazione, come per esempio nell’agro vallecrosino, legate alla segnalazione del luogo di provenienza dei vitigni e di relativa vinificazione: fu questo il caso del vermiglio della fascia longa.
Dopo la GRANDE STAGIONE ROMANA, caratterizzata da vini entrati nella leggenda e protagonisti indiscussi tanto sulla tavola dei ricchi quanti nella celebrazione letterararia dei poeti, il mondo occidentale conobbe una sostanziale recessione qualitativa, connessa peraltro alla recessione del mercato aperto imperiale, ma anche nell’età intermedia il VINO conservò una posizione di rilievo in ambito gastronomico, primeggiando in Liguria come altrove nei
CONTESTI AGRONOMICI QUANTO CULINARI.
Fu però dal ‘500 che si replicò, nel superiore benessere, un collegamento spirituale ed esistenziale, anche tramite la cultura del vino di pregio con l’ammirata romanità, un collegamento che riprese la consuetudine di  CLASSIFICARE I VINI TRAMITE DENOMINAZIONI UFFICIALI E COMMERCIALI,
in maniera da averne, sul tronco principale della rilevanza enologica, l’immediata consapevolezza del valore, cosa mai sgradita, anche di quella rinomanza pubblica che coimplicava una contestuale affermazione sociale: sì che come ai tempi di Roma chi offriva del prelibatissimo e costosissimo Falerno contemporaneamente si affermava nella consapevolezza dei convitati quale munifico ospite, come uomo di successo, alla stregua di intenditore e personaggio socialmente sia di gusto che di eminenza tanto economica che comportamentale.
In tutto questo contesto di vini non si può tuttavia dimenticare mai il VINO ECCLESIASTICO cioè finalizzato ai sacri riti: in merito al quale nel tempo vennero sancite le specifiche norme religiose ma anche le doverose norme di regolamentazione per salvaguardarlo e tutelarne l’uso od abuso in senso anche spiccatamente profano: non per nulla la stessa Chiesa mirò, per altro verso rispetto alle pubbliche istituzioni, a regolamentare l’attività dei “luoghi” maggiormente deputati alla vendita del vino ad avventori abituali o di passaggio vale a dire le  ************LOCANDE E TAVERNE************
sviluppatisi sulla direttrice di una tradizione culturale quasi mai interrotta che risale alla OSPITALITA’ A PAGAMENTO DELLA ROMANITA’ CLASSICA ma che parimenti ebbe attestazioni anche lungo il medioevo e nello stesso territorio intemelio come per tutto il Ponente ligustico al modo che attestano i casi, emblematici, di GIOVANNI DA PIACENZA che si valse di un OSPIZIO PRIVATO e di FRANCESCO PETRARCA che è incerto dire se si servì per riposare e rifocillarsi di un’ ANALOGA STRUTTURA o di un OSPIZIO GESTITO DA UN ORDINE RELIGIOSO CAVALLERESCO.
Nel XVI secolo in Liguria comparve un vino dalla chiara denominazione, il MOSCATELLINO
del Ponente, un vino di pregio non comune che nel 600 (secolo in cui peraltro cominciano a comparire i primi trattati scientifici di viticoltura) sarebbe stato esaltato addirittura da eruditi e poeti.

da Cultura-Barocca

Le invasioni barbariche nel ponente ligure

Resti di mura romane a Ventimiglia (IM)

La CONQUISTA BARBARICA DELLA LIGURIA OCCIDENTALE resta un evento nebuloso, anche perché le fonti scritte sono poche e lacunose.
Sostanzialmente il crollo di Roma, per quanto storicamente motivato da oltre un secolo, per convenzione cronologica lo si data da Romolo Augustolo ultimo imperatore romano d’Occidente (475-476) che fu innalzato al trono dal padre il patrizio Oreste generale romano, già segretario di Attila verso il 448, poi nominato patrizio dall’Imperatore romano d’Occidente Giulio Nepote e posto a capo degli eserciti della Gallia.
Oreste riuscì ad insediare sul trono il proprio figlio propio ribellandosi a Giulio Nepote nel 475: il giovane imperatore (di appena 16 anni) dovette a sua volta patire l’anno dopo l’ammutinamento delle truppe, quasi tutte reclutate fra barbari che proclamarono re Odoacre il quale arrestò ed uccise Oreste a Pavia nel 476 a mentre confinò Romolo Augustolo in Campania.

A parte le devastazioni saltuarie di tempi diversi (come quelle sempre oggetto di discussione dei Vandali) non si può dimenticare che, prima delle grandi invasioni di cui di seguito si parla, son da menzionare alcuni importanti, seppur casuali ed episodici, sfondamenti di popolazioni germaniche presto ricacciate oltre i lontani confini imperiali.

Tra il 264/265 gli ALAMANNI distrussero molte città della Liguria, tra cui “Ventimiglia Romana“, come risulta attestato anche dall’archeologia viste le tracce di incendi e crolli, con susseguenti restauri, individuati in parecchi importanti centri liguri anche costieri> L’intervento degli Alamanni dovette incidere notevolmente sull’economia ligure ed in particolare a parere di F.Pallarés (Alcune considerazioni sulle anfore del Battistero di Albenga in “Rivista di Studi Liguri”, 1987, pp.280-281) il grave saccheggio avrebbe determinato, a giudizio non del tutto condiviso dell’autrice, l’arresto della COLTIVAZIONE DELL’OLIVO in Liguria con l’incentivazione dell’importazione (l’analisi delle anfore e di altri reperti, oltre che più generali considerazioni di storia economica, sembrerebbe avallare l’idea che fino a metà III secolo l’Italia avesse importato olio d’oliva dalla Spagna -dalla Boetica in particolare- e che invece dalla metà di quello stesso secolo in Italia ed in Liguria si prendesse ad importare il più economico e concorrenziale olio africano, specie quello delle grandi aziende della Tripolitania gestite da famiglie di rango senatorio).
L’indagine sul sito di Ventimiglia romana offre qualche dato: l’analisi dei reperti e la presenza in loco di rozzi restauri – son evidenti quelli bizantini e Longobardi in una Parodos del teatro – suggeriscono l’ idea di un degrado, dell’alternarsi di saccheggi e dominazioni con un calo demografico e l’interruzione (per il timore di predoni e la distruzione di numerosi ponti) della via Julia Augusta.

Si sta altresì sviluppando l’ipotesi che, difronte ai pericoli delle invasioni barbariche, la popolazione costiera sia andata concentrandosi in siti riparati, come il Cavo di Ventimiglia (già sede di complessi romani imperiali, ove si rinvennero 8 tombe romane a cappuccina, altri tumuli medievali e resti murari di un edificio che han fatto pensare allo sviluppo di una villa rustica d’epoca imperiale se non di un sobborgo tardoromano: U.MARTINI, Nuovi ritrovamenti sul “Cavo” di Ventimiglia Alta in “R.S.L.”, XI, 1945, nn. 1-3, pp. 31-36).
Peraltro nel sito di Ventimiglia alta, nel 1857, “Nel taglio della trincea che s’apriva sotto l’oratorio di S.Giovanni Battista per le costruzioni della nuova traversa… (G. ROSSI, Notizie degli Scavi, 1887, p. 289) si rinvenne un sigillo romano imperiale di ottima fattura, uno strumento (del II sec.d.C., di forma ellittica -cm.2×4- con impugnatura ad anello) utilizzato per vidimare sulla ceralacca, col nome del personaggio loro propietario, documenti pubblici o privati. Nel sigillo, su tre linee, si legge M(arci)/ Aemili(i)/ Bassi quasi unanimente identificato con uno dei più importanti cittadini romani di Ventimiglia Romana, appunto Marco Emilio Basso.

Oratorio di San Giovanni Battista a Ventimglia (IM)

V’è peraltro da dire che l’oratorio di S. Giovanni Battista, un tempo intitolato a S. Chiara, sorgeva in un sito particolare della città alta, cioè prossimo al porto del Roia ed alla via imperiale sin a far pensare che vi potesse sorgere un qualche edificio pubblico, con funzioni doganali, amministrative o comunque di valenza sociale: tutte queste considerazioni hanno bisogno di ulteriori, non facili, verifiche archeologiche ma sembra ormai abbastanza certo che, a prescindere dalle ipotetiche dimensione urbane del sito, i residenti intemeli che, ai tempi delle lotte fra barbari e bizantini, presero a sistemarsi nel luogo riparato di Ventimiglia Alta, si spostassero non tanto su aree relativamente deserte ma su un sistema suburbano romano imperiale non privo di strutture e di complessi d’utilità pubblica e sociale evolutisi da tempo [la popolazione dei fondi dell’ entroterra prese intanto a concentrarsi dal V sec. in nuclei di fondovalle sì da abbandonare quelle Villae, di singoli ceppi di famiglia, che sorgessero lontane, in luoghi anche ottimali, favorevoli e assolati su mezzacosta, ma isolati in rapporto alle nuove strategie.
Secondo il Formentini (Genova nel Basso Impero e nell’ Alto Medioevo in Storia di Genova dalle origini al tempo nostro, Milano, 1941, I , p. 68) il re ALARICO I nel 400, a capo dei VISIGOTI o GOTI VALOROSI, distrutta Aquileia e cercato invano di occupare Milano, avrebbe devastata l’Italia fino alla terra dei Tusci. Poi, minacciato dal condottiero imperiale Stilicone, si sarebbe mosso verso le Gallie, passando per la Liguria di cui sarebbero state distrutte vie e città, sin alla sconfitta patita a Pollenzo per opera dello stesso Stilicone nel 402.

A parere del Barocelli, ALARICO avrebbe invece posto a sacco le città liguri e del Basso Piemonte, poi durante la II invasione, del 408-410 (quella che portò alla presa ed al sacco di Roma da parte dello stesso Alarico), una seconda armata di VISIGOTI, guidati da ATAULFO, alla ricerca di un’uscita verso le Gallie, avrebbe devastato il municipio di Albintimilium (il poeta latino Claudiano, nel De sexto cons. Honor. Aug. pp. 440-4, scrisse che Alarico aveva mosso le armate profittando dell’inverno contro le trepidanti città liguri).
Tale esercito visigotico dovette seguire la via imperiale di costa, sul cui percorso esistevano nuclei insediativi senza difese, ove era semplice far saccheggi e rifornire l’armata: il caso più celebre fu quello di Albenga, ormai divenuta centro paleocristiano, che pei gravi danni subiti venne riedificata fra 414 e 417 dall’imperatore Costanzo III.

Uno scorcio della Val Roia

Lo spostamento dei Visigoti si sviluppò tuttavia su un fronte assai ampio, fra costa ligure e Piemonte cispadano, perché, seguendo con probabilità i tragitti e le diramazioni delle vie Postumia e Julia Augusta, vennero investiti molti centri del Piemonte centro-meridionale ed in particolare le città di Libarna, Industria, Pollenzo (anche Alba Pompeja ed Hasta) senza escludere il nodo viario di Acqui (Aquae Statiellae) da cui la Giulia Augusta scendeva al mar ligure per fondersi, presso Vado (Vada Sabatia) con l’Aurelia, che proveniva da Luni e Genova, e sostituirla quale strada di commercio verso la Provenza (E.COLLA, Gli Statuti Comunali Acquesi, Cavallermaggiore, 1987, Appendice di ritrovamenti archeologici).

Si potrebbe ritenere, sulla base di riscontri di onomastica gotica, che il grosso delle forze di Ataulfo fosse avanzato su 2 direttrici, di cui quella costiera conduceva ai siti portuali di Albenga, Capo Don di Taggia e Ventimiglia mentre la “piemontese” arrivava a Pedo. Al centro di questa “tenaglia barbarica” fu gravemente colpita la città di COEBA (oggi Ceva), già insediamento degli Ingauni e quindi colonia romana e forse anche municipio: secondo l’interpretazione di alcuni storici, oltre che dalle invasioni barbariche, la città, di cui si sa purtroppo poco, sarebbe stata cancellata -prima di risorgere nel Medioevo ed essere eretta in Marchesato da Bonifacio del Vasto in favore del figlio Anselmo- dai predoni saraceni.

Ai Visigoti successero per poco (476) gli ERULI (antico popolo germanico) che, appoggiando Odoacre, gli consentì di incorporare la Liguria nel suo regno barbarico (i VANDALI, per quanto citati dalla storia, procedettero più a saccheggi della Liguria con la loro flotta, nel V sec. operando dalla base di Cartagine specie all’epoca del vigoroso re Genserico). Sempre nel V sec. giunsero poi gli OSTROGOTI di Teodorico che, distrutti i nemici, impose un ordinamento germanico alle contrade italiche e, essendo di fede ariana, in contrapposizione alla Chiesa di Roma, che in molte pubbliche funzioni aveva ormai surrogato lo Stato, procedette ad una distribuzione di terre, anche ecclesiastiche, ai suoi militi congedati od Arimanni, sistemandoli in zone strategiche come la Val Nervia e contrapponendo le chiese ariane a quelle cattolico-romane attorno a cui gli italici andavano recuperando una guida unitaria ( ENNOD., Vita Epiph., 130,138,132: L. CRACCO RUGGINI, Esperienze economiche e sociali nel mondo romano in Nuove questioni di storia antica, Milano, 1969, p. 787).

Una diramazione della Val Nervia

Al pari dei Visigoti, e come avrebbero fatto molti invasori compreso i Saraceni, anche gli OSTROGOTI erano scesi al mare intemelio dal territorio di Borgo S. Dalmazzo e come i predecessori si erano trovati nella necessità di seguire il percorso mare-monti del periodo classico, quello che portava a Tenda e quindi a Briga, Saorgio (in Val Roia), Passo Muratone al tragitto imperiale di Val Nervia (Marcora, Veonegi, ” Portu”) giungendo a Dolceacqua e Camporosso (area di S.Andrea – S.Pietro).
La toponomastica prova che i GOTI raggiunsero un buon controllo del territorio e dei suoi nodi viari. Discreta importanza fu riconosciuta al quadrivio di Marcora. Dal sito i germani sarebbero penetrati nel vecchio fondo romano di Oggia o sistemarsi come coloni nel pignasco, nei piccoli insediamenti tardo-romani di Argeleu e del Marburgu (sul vallone che limita a Sud la spianata della chiesa di San Tommaso), del vicino Marbuscu o bosco cattivo e della supposta area sacrale di Lago Pigo.
Grazie ai rami viari i Barbari non avrebbero trovato ostacoli a raggiungere l’ area di Apricale (tragitto Val Nervia – Isolabona – Apricale – Summus Vicus \ Semoigo); da lì sarebbero potuti arrivare in VALLE ARGENTINA (direttrice di Apricale-Baiardo-S.Romolo).
L’importanza di questa II^ valle, crocevia di scambi sin al tardo Impero, anche per l’approdo portuale di Costa Beleni \ Balena in Riva Ligure-Arma di Taggia, induce però a credere che i Goti vi siano piuttosto giunti in modo autonomo rispetto alla val Nervia.
Procedendo da Pedona sin a Briga era una trasversale, da “Madonna delle Fontane” al Colle Ardente fino a Triora, donde era facile raggiungere i latifondi tra Sanremo e Valle Argentina.

Uno scorcio di Valle Argentina

Il castello di Campomarzio/S.Giorgio, ove son riconoscibili costruzioni bizantine su resti di un avamposto romano a sua volta eretto sul cuspidale di un castelliere ligure, restò per secoli a guardia del percorso vallivo dell’Argentina.

La zona di Costa Beleni

Dai primi del 1800 una serie di scavi archeologici ha fatto individuare come la stazione stradale romana di Costa Beleni, si sia evoluta in un nucleo urbano e portuale del medio Impero e poi in un insediamento paleocristiano, ove si son individuate 2 basiliche primigenie ed una necropoli.
Documenti di varia antichità si son reperiti per questo territorio né mancano tracce di distruzioni e restauri, con qualche scoperta riguardante sia il periodo gotico del V sec. che della riconquista bizantina del VI (N.CALVINI-A.SARCHI, Il Principato di Villaregia, Sanremo, 1977, Introduzione storica di Aldo Sarchi).

da Cultura-Barocca

I pellegrinaggi devozionali per la guarigione nel Ponente ligure tra i secoli XIV e XIX

Il Santuario di Isolabona (IM)

Il Pellegrinaggio votivo fu un fenomeno variamente sfaccettato che assunse indubbiamente coloriture straordinarie in occasione degli eventi giubilari e nel contesto storico di grandi vittorie -anche storico-politiche oltre che spirituali- della Cristianità ma che tuttavia seguì una variabile tanto estesa di espressioni formali e sostanziali che sarebbe improprio ed anche ingiusto costringerle tutte nello spazio ecumenico del “Viaggio Santo”. Per certi aspetti, in Liguria, proprio il ’600 – travolto da grandi paure collettive per la peste, per le invasioni dei pirati turcheschi, per le guerre rovinose e le tante carestie – risultò al centro di questa diversa valutazione del pellegrinaggio. Nel XVII secolo – nel Ponente ligure come in tante altre contrade italiane – si assistette per esempio ad una nuova intitolazione di antiche chiese: di modo che spesso un S.Rocco -protettore delle genti contro la peste e le epidemie- finì per surrogare patroni di più antica tradizione come S.Vincenzo. Allo stessa maniera un S.Giacomo -in parte taumaturgo ed in parte culturalmente connesso alla nuova cultura del pellegrinaggio- sostituì, nella nominazione di alcuni edifici di culto, il “vecchio” S. Cristoforo che pure, come protettore dei viandanti e, a suo tempo, dei cavalieri Templari “custodi” degli stessi viandanti, aveva avuto un sostanziale “momento di gloria” sì da conferire patronato ad ospizi, chiese e “cappelle di via”, cioè ai fattori strumentali e in qualche modo trainanti, perchè assolutamente necessari, del complesso apparato dei grandi viaggi nella sacralità. Similmente nel ’600 sorsero molti santuari, mariani e non, nel contesto di una diversa tradizione votiva processionale. Senza che il viaggio estremo, quello in Terrasanta, perdesse la sua funzione carismatica e significante, dal ’600 la Peregrinatio fidei fu restituita, anche per evidenti ragioni storiche, a quella dimensione primigenia, formale ed effettuale, che era diventata in apparenza una variante.
Il “grande viaggio della fede” era stato un fenomeno epocale, storicamente iscritto ai registri storici del XIII-XIV secolo: esso non inaugurava però una peculiare espressione religiosa.
Antecedentemente, all’epoca della civiltà medievale e curtense, quella degli spazi chiusi e degli scambi interrotti, la manifestazione coreografica della fede non aveva affatto ignorata la cifra della Peregrinatio. Questa però era mediamente orchestrata, da secoli, sulla topografia angusta della villa e della pieve, della chiesa di valle a fronte dell’impianto demico, del sito sacrale, eretto in qualche modo a santuario, cui era attribuita una particolare valenza.
Molto spesso questo pellegrinaggio locale spaziava su minime aree geografiche e tante volte era finalizzato a scopi non così altamente spirituali come avrebbe poi suggerito la filosofia del “Viaggio di fede” dal XIII secolo.
Era però un pellegrinaggio – per così dire – alla portata di tutti, a tal punto ramificato da non lasciare, a volte, tracce architettoniche o documentarie. Esso avveniva da sempre e per sempre sarebbe avvenuto.
In uno dei casi più emblematici si trattava dei “Pellegrinaggi di fede per la guarigione”. Essi avvenivano da epoche lontane -erano nati ancor prima dei vagiti della civiltà cristiana- ma da questa tali esperienze religiose acquisirono una dimensione organica ed una motivazione catechistica che finivano per interpretare a livelli superiori la primaria esperienza taumaturgica. I “Pellegrinaggi per la guarigione”, così intimamente collegati alla tradizione culturale italiana, sono stati abbastanza relegati nel limbo del secondario dalla asfissiante ricerca dei grandi percorsi del sacro. Eppure quella stessa sacralità che esternavano i “Pellegrini di Terrasanta” – come genericamente si definivano i viandanti di fede del ’200 anche se avevano per meta, ad esempio, la sola Roma- era propria, per secolari vicissitudini, del credo dei “Pellegrinaggi della guarigione”.
Per quanto possa sembrare strano l’iridescente barocco costituì una fucina di recupero istituzionale di questa sorta di micropellegrinaggi di fede. Dopo la definitiva perdita della Palestina – e quindi di tutto l’Oriente – saldamente in mano all’Islam ed ai Turchi, il “Pellegrinaggio verso la Terrasanta” decadde a fenomeno di recupero archeologico o a sublimazione mistica di poche esperienze elette, talora guidate da drammatica visione missionaria. Il tornare in Europa, soprattutto nell’Europa cattolica e mediterranea, di peste e invasori islamici -espressioni storiche esorcizzate nella fantasia parareligiosa sin ai limiti della premonizione apocalittica- rinvigorì contestualmente la ricerca di approdi facili, di santuari prossimi ai borghi abitati, lontani da terre deserte ed abitate da predoni.
Spaventata – giustamente – e titubante difronte ad eventi impensati nel medioevo -come lo scisma luterano- la popolazione, specie nelle sue frange più semplici, scoprì o meglio incentivò le mai dismesse espressioni di “Pellegrinaggio per lo star bene ed il guarire”.
Ed ecco allora in tutto il Ponente ligure quel trionfante spettacolo di frequentazione popolare di quelle chiese, cappelle e santuari a volte costruiti ex novo ma spesso eretti su siti in cui la tradizione -si dica pure una tradizione che affondava in vari aspetti delle antiche fedi precristiane- aveva individuato la persistenza di aree sacrali taumaturgiche o apotropaiche.
Nel Ponente estremo di Liguria occorre tenere conto, per esempio, che il Santuario di Nostra Signora delle Grazie ad Isolabona (IM), in Val Nervia fu storicamente connesso alla fruizione d’una fonte termale, detta “Gonteri”, che l’Assunta di Castelvittorio, sempre in Val Nervia, fu chiesa romanica benedettina eretta ad Lacum Putidum nei pressi d’una base termale in cui si riconobbero evidenti tracce di frequentazione cultuale romana, che ancora in Bordighera la “Chiesa della Rota” – parte sostanziale dell’annesso ospedale per pellegrini del XIII secolo – fu edificata non lungi da un’altra meno nota fonte termale.
Tutto ciò senza menzionare altri casi evidenti del Ponente Ligure: e tenendo sempre fermo il rilevante significato di continuità cultuale tra mondo celto-ligure fortemente romanizzato ed ambiente cristiano-medievale che, come ha dimostrato padre Avena Benoit, in vari modi – anche sotto il profilo archeologic o- si legge, neppur lontano dal terminale di val Nervia, nella chiesa brigasca di Nostra Signora delle Fontane.
Sulla linea di un riconoscimento di quella spiritualità metastorica che si coniuga con un anelito sostanziale verso il divino, non sembra affatto irriverente ammettere che, nell’interminabile succedersi di culture e tradizioni spirituali, nella coreografia cristiano-cattolica ligure siano filtrate innocue positure delle religioni preesistenti. Del resto in vari casi quegli edifici religiosi erano accompagnati da un ospizio, da un elementare luogo di cura.
Eludendo comunque dissertazioni sulla genesi di siffatte chiese – disquisizioni che corrono troppo spesso il rischio d’apparire inutili esercizi d’ermeneutica – è sostanziale il fatto – confortato da indagine storica ed approfondamento etnografico – che la cultura popolare e una ritualità cattolica fortemente marcata di folklore, nei secoli scorsi, hanno individuato in tali luoghi di culto dei veri e propri “Santuari della guarigione”.
E questo -in modo eclatante- si scopre specialmente nel XVII secolo, tanto nella rivisitazione architettonica delle chiese che del loro significato ideologico e spirituale: basti per ciò l’esempio di “Nostra Signora della Muta di Dolceacqua”, già parte di una struttura conventuale benedettina di matrice novaliciense, nel XVII secolo trasformata dagli Agostiniani, cui ne era passato il controllo, in un “Santuario della guarigione” collegato ad una miracolosa sorgente terapeutica di cui avanzano tuttora resti significativi.
Queste chiese e santuari, che vivevano in simbiosi con sorgenti ed acque termali, erano e, in parte sono, “segni della fede” eretti, ampliati, abbelliti, ornati di ex voto in concomitanza con grandi manifestazioni patologiche, soprattutto con le due principali cause storiche di panico e mortalità di massa: la peste bubbonica per quanto concerne il periodo che va dal XIV al XVII secolo ed il colera relativamente al XVIII e XIX secolo.
In un manoscritto inedito di un medico-ricercatore operante tra Ventimiglia e Perinaldo a cavallo del ’700 e del primo ’800 si ha direttamente occasione di leggere il peso attribuito dalla scienza di quel tempo ad una pur elementare idroterapia. Era una forma di cura che la povera gente poteva esercitare quasi soltanto presso questi luoghi di culto. Ben sapendo quanto fosse importante per difendersi dal colera bere (e comunque utilizzare per vari scopi, comprese le abluzioni) acqua pura come quella che sgorgava presso le fonti di siffatte chiese, è ben evidente -come si evince dalla lettura del manoscritto appena citato- che davvero, non solo secondo l’opinione della gente comune ma anche per il giudizio di medici ancora in possesso di armi limitate contro il colera, quelle chiese meritassero, alternativamente, gli appellativi di “Santuari della guarigione” e di “Segni della fede”.
Le processioni a siffatti simulacri della speranza erano periodicamente sancite da grandi tributi d’affetto orchestrati sì dalla liturgia ma in massima parte permeati di umanissimo pragmatismo: la ricerca dell’estremo bene terreno, il “guarire” o, comunque, lo “stare in apprezzabile salute”. Anche se, per postazione ideologica e pregiudizio intellettuale, piace talora illudersi su straordinari, collettivi slanci esclusivamente fideistici, la massa fu mediamente spinta, come in minor misura lo è tuttora, a questi pellegrinaggi verso “Santuari della guarigione” dalla giustificata, compassionevole volontà di guarire o comunque dissipare da sè o dal corpo dei propri cari il lugubre “segno della morte”: e per guarire bisognava sì credere e pregare, ma non bastava, bisognava soprattutto bere l’”acqua miracolosa” dei “Santuari della guarigione”.

da Cultura-Barocca