Perinaldo (IM)

Dal 1288 Perinaldo (IM) ed il suo strategico territorio entrano a far parte della Signoria dei Doria di Dolceacqua.
Secondo i Diritti dei Doria del XVI sec. vengono ribadite per il borgo le identiche rubriche degli altri paesi colla variante del VI e VII cap. ove si stabilisce che i residenti debbano versare alla Purificazione in Febbraio 75 lire genovesi al Signore, che a Natale i bandioti debbano al Signore duo motones novellarii pingues…una crupa ovis optimae…e in festo Paschatis duo capreoli vel florenum unum pro libito voluntatis domini.

In Perinaldo, nel luogo detto la Loneta, i Doria possedevano poi due frantoi, in quello inferiore vi erano quattro botti grandi, due vasi lignei, di cui uno molto grande per contenere le olive e l’altro per riporvi l’olio, un’Hydria assai capace e quattro situlae.
Nel mulino superiore stavano invece tre botti grandi, tre piccoli tini, quattro situlae, una tineta, 34 sportulae, 2 corbulae, 2 anelli di ferro, ed uno strumento per aspirare l’olio d’oliva.
La rubrica 99 degli Jura o DIRITTI DEI DORIA menziona inoltre che a riguardo “Dei prati” il Signore di Dolceacqua ne aveva tre all’Alpicella (Arpexella), un altro sito al luogo “screpin” ed un altro ancora a “campi”.

Dal 1559 dopo la pace di Cateau Cambresis si succedono alterne vicende per la Signoria dei Doria in bilico nelle alleanze con la Repubblica di Genova od il Piemonte.

I rapporti fra i Doria ed i Savoia si guastano nel XVII sec. e nel 1625, durante la guerra tra Genova e i Savoia, la Signoria di Dolceacqua si allea con la Serenissima Repubblica di Genova.

Per reazione le truppe sabaude invadono i territori dei Doria: questi potranno rientrare poi in possesso del loro Dominio solo dal 1652 dopo aver prestato atto di vassallaggio ai Savoia ed aver visto trasformare l’antica Signoria in Marchesato, che da tal data entra del tutto nell’orbita politica piemontese.

Nel 1672, sorto un altro conflitto dei Savoia con Genova, il Marchesato viene invaso dalle forze genovesi ed il borgo di Perinaldo viene saccheggiato sì che la sua fortezza, posta sullo sperone ovest dell’altura a controllo delle vie di crinale, viene del tutto demolita (oggi ne sopravvive solo il nome nella “Piazza Castello”.

Da questo momento Perinaldo non patisce più altri danni ma entra nella crisi socio-economica dell’intero Marchesato, che entra in decadenza irreversibile dopo la distruzione del Castello di Dolceacqua durante la Guerra di Successione al Trono imperiale del XVIII secolo.
Esplosa la Rivoluzione francese ed affermatasi la stella di Napoleone, col trattato di Presburgo (28-XII-1806) Repubblica di Genova, Piemonte e tutti gli staterelli vicini diventano parte stessa dell’Impero francese.

Dopo la sconfitta di Napoleone (1814-’15) ed in seguito all'”Atto finale” del Congresso di Vienna (9-VI-1815) il Piemonte si trasforma in Regno di Sardegna, annettendosi il Dominio della soppressa Repubblica di Genova.

Non più contesa fra potenti rivali e non essendo più fortilizio sito su ambigui confini, Perinaldo prende a fiorire.

Da questo momento la sua storia si identifica con quella del Regno Sardo e, dal 1861, del Regno d’Italia.

Perinaldo, che gode di buon clima ed è immerso in un ambiente naturale molto bello, ha discrete risorse architettoniche.

Oltre alla sopravvivenza, ai lati est ed ovest di Piazza Castello, di due volte con copertura a botte (da collegare con le antiche fortificazioni) il paese si qualifica per la parrocchiale di San Nicola (o più precisamente della COLLEGIATA DI SAN NICOLA), la cui costruzione risale al 1489 anche se durante il ‘600 la chiesa venne modificata in linea col gusto barocco.
Nel 1887 il terremoto che demolisce Bussana e seppellisce centinaia di vittime nella parrocchiale di Baiardo, arreca gravi danni anche alla parrocchiale di Perimaldo, rovinandone l’abside, la facciata ed il campanile.
Per questo risultano oggi assai interessanti i restauri effettuati tra il 1966 ed il 1969 in forza dei quali l’antica chiesa si può oggi ammirare nella sua originale linea quattrocentesca, con l’armoniosa successione di belle colonne sormontate da capitelli cubiformi.

Tra il patrimonio della chiesa parrocchiale è da ascrivere una tela, denominata comunemente Delle Anime, datata della II metà del ‘600 ed attribuita alla scuola del Guercino (Giovanni Francesco Barbieri, da Cento).

Perinaldo (IM) – Il Castello Maraldi

Ancora dignitoso compare l’edificio del Castello Maraldi dimora, tra XVII e XVIII sec., degli astronomi e cartografi Cassini, Maraldi e Borgogno.

Il SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA DELLA VISITAZIONE sorge non lontano dalla storica STRADA DEL VERBONE su di un poggio che guarda a nord verso il paese.
Si tratta di una CHIESA CAMPESTRE eretta nel 1600 dagli abitanti di Perinaldo: sarebbe stata collocata in tale posizione, in linea del meridiano ligure, su proposta di GIANDOMENICO CASSINI.
Dopo un lungo abbandono il SANTUARIO fu restaurato per volontà popolare e riconsegnato alla pratica della fede il 22-8-1965 come si apprende da una iscrizione sulla facciata: sull’ingresso in pietra arenaria domina una STATUA DELLA VERGINE mentre sopra l’altare è stata posta una tela raffigurante la MADONNA DELLA MISERICORDIA.
Nel dialetto di Perinaldo la CHIESA è detta MADONA RU POGIU RU REI cioè “Madonna del Poggio dei Rei”: secondo la tradizione tale nome le sarebbe stato conferito in quanto, secondo i canoni del DIRITTO INTERMEDIO, gli individui CONDANNATI A PENE CORPORALI dovevano procedere in una sorta di corteo tutto intorno il SANTUARIO iindossando ABITI DA PENITENTI, PORTANDO UN PARTICOLARE CAPPELLO SE NON UN CAPPUCCIO.
La tradizione non è affatto priva di fondamento.
Non era per nulla raro nel passato il caso di REI (come meglio si indicavano le persone giudicate COLPEVOLI DI REATI, per motivi religiosi o civili, costretti a compiere dei percorsi obbligati in vari luoghi pubblici: ciò lo si ricava dalle norme di molti STATUTI CRIMINALI E CIVILI e, su scala più estesa dal DIRITTO PENALE E CIVILE DEGLI STATI.
La pena più temuta, secondo gli STATUTI DI GENOVA [che son poi simili se non più miti di altri, compresi quelli dei SAVOIA] era di PROCEDERE TRAINATI DA UN ANIMALE SIN AL LUOGO DELLA PENA ed in particolare, fra vari tipi di CRIMINALI [dannati alla pena di caminare (spesso a stento dopo le TORTURE RICEVUTE PER OTTENERE UNA QUALCHE CONFESSIONE) sotto lo sguardo inflessibile del BOIA E DEI SUOI SERVENTI sin a determinati luoghi di culto nel presso dei quali essere poi puniti sotto gli occhi di tutti], in particolare molto di frequente comparivano i LADRI.

da Cultura-Barocca

Sull’antica Cartiera di Isolabona (IM)

La Signoria dei Doria di Dolceacqua (IM) sulla base degli Jura o diritti di siffatta Signoria Bannale deteneva  ad Isolabona (IM) una CARTIERA o aedificium papyri, già affidata al maestro Bartolomeo Villano.

Non era una novità nel genovesato e soprattutto nell’area dell’attuale località di Voltri sorgevano numerose ed attrezzate cartiere, a testimonianza di un’attività manifatturiera di rilievo nella Serenissima Repubblica, anche praticata da altre nobili famiglie.

La Cartiera, che sorgeva a valle del borgo di Isolabona della Signoria di Dolceacqua, fu eretta tra XIV e XV secolo.

La Cartiera della Val Nervia non è altro comunque che la conferma dell’estensione del fenomeno dell’industria della carta proprio del Genovesato.

A riguardo di questa cartiera di Isolabona nel 1580 Stefano Doria, per testamento, lasciò al parente, conte Geronimo Doria di Cirié, “centocinquanta balle di papiri fatti nell’edificio di Dolceacqua“.

Il Briquet (Les papiers des archives des Genes et leurs filigranes in “Atti della Società Ligure di Storia Patria”, 1888) individuò carte del XV sec. di una “Cartiera di Isolabona”, in cui vi era la filigrana dei fabbricanti genovesi, il guanto sormontato da una stella.

Analizzare la Cartiera non sarebbe solo un modo per ripensare al Castello di Dolceacqua ma a ripensarlo in connessione con almeno tre sue strutture importanti dal lato scientifico di cui è possibile scrivere ancora parecchio. Il giardino rinascimentale svolgente ruolo di orto botanico. L’ex Biblioteca del Castello che non doveva esser affatto modesta, nonostante le innumerevoli peripezie, anche per i rari manoscritti che custodiva. E finalmente quella che potrebbe modernamente definirsi Farmacia/Gabinetto Medico del Castello; anche se occorre sempre rammentare che come tutti nella loro epoca, e specie quelli che se lo potevano permettere, in questo “Gabinetto Medico” accanto a terapie strutturate secondo i principi scientifici tuttora in auge e coerenti con le attuali postulazioni della scienza o medicina allopatica, i Doria si avvalevano anche di medicine simpatetiche quali gli “essudati delle Reliquie” e parimenti dei “prodotti alchemici presunti attivatori del magnetismo universale: dall’unguento armario alla polvere simpatetica”.

Presso la Biblioteca di Ventimiglia, Fondo Bono, ms. 1 (anni 1579-80) si conservano lettere di Stefano Doria, redatte sul supporto cartaceo di questa cartiera.

I ruderi dell’edificio evidenziano una modifica italiana alla STRUMENTAZIONE ARABA di queste aziende, l’innovazione del maglio a testa di pietra azionato da ruota idraulica.

L’analisi di qualche campione di carta di questa CARTIERA di ISOLABONA, trovato in area sabauda, permette peraltro di riconoscere la metodica di collatura con gelatina animale onde conferire alla carta doti di conservabilità (documento vergato su entrambi i lati del 1436 della Certosa di Pesio= Arch. Privato).
Per la lavorazione si usavano stracci di lino e quindi di canapa.

Da lettere dei ventimigliesi Battaglino Orengo (1509) ed Antonio Orengo (1521) si evince che tal carta era commercializzata su l’arco ligure e per il Piemonte.

da Cultura-Barocca

Dai “Diritti dei Doria” del 1523

La Signoria Doria nel 1523 possedeva in Apricale una “terra aggregata” in località “gunter”, parte di un campo “in luogo li Rossi”, una terra aggregata nella “fascia la grassa”, una pezza di terra aggregata a la canavayra “(il cui toponimo rimanda ad una coltura di canapa), due gerbidi a “la croixe” ed uno in zona “lantigho”.
I Doria avevano poi terreni coltivati in luogo “lo bral”, due castagneti nelle località “lo sangue” e a “le conzynaire”, quattro altri campi, uno a “lo campeto”, due a “fori”.
Altri beni immobili eran costituiti da 4 castagneti (località “S. Giovanni, Ortomoro, faxia de carletto sive giraudo, faxia curla“).
Oltre ad un campo nel luogo la grassa e terreni presso S. Pietro, il Signore esercitava diritti sul contratto per cui Dioniso Fiore era conduttore della terra de lo chioto de portaver.
Gli spettavano altresì, in Apricale, una stalla o casa , già concessa alla locale Confraternita per ricompensa di alcuni danni materiali subiti.
La Signoria deteneva poi tre frantoi di cui uno detto “l’edificio soprano che ha la sua ruota, latrina e mola con tre botti, una tina con un solo cerchio, due grandi tini per l’ olio, uno più piccolo per trasportare l’ olio” (il secondo era detto edificio mezzano, l’ultimo edificio nuovo).

Dai “Diritti dei Doria” del 1523 si ricavano, in latino qui tradotto, le seguenti rubriche:

“…APRICALE e ISOLABONA
30- La Comunità di Apricale ed Isolabona deve (quanto segue) al Reverendissimo Signore Agostino de Grimaldi Vescovo di Grasse, di Monaco, Dolceacqua e dei restanti luoghi:
31- Dapprima alla festa di S. Lucia deve versare a titolo di omaggio la somma di 45 lire di moneta corrente.
32- Alla Natività di Nostro Signore Gesù Cristo deve dare due montoni giovani.
33- In detta festa i consoli del posto devono donare un allevato di carne ovina.
34- Inoltre detti consoli sian tenuti a versare al reverendissimo Signore 150 uova a titolo di tassazione sugli introiti della loro carica in occasione della festa della Purificazione della Beata Maria, che vien celebrata al 2 od al 7 di Febbraio.
APRICALE e ISOLA
35- Alla Festa di Pasqua le suddette Comunità versino al nominato Signore due capretti.
36- I consoli in detta festività diano pure un allevato di capra.
37- Detti consoli sian tenuti a dare al Signore la quarta parte delle esazioni pecuniarie di condanne, accuse e pene, su cui si estende la loro autorità, di cui il Signore potrà far remissione ai pentiti od a quanti avran saldata la multa secondo la discrezionalità di siffatti consoli sul doversi quietare, esigere, procedere stabilendosi che la quarta parte delle riscossioni coatte spetti al Signore e che gli venga assegnata per mezzo dei consoli a titolo del loro officio.
38- Il Signore avrà inoltre ogni autorità sulla giurisdizione criminale e penale, come si stabilirà con opportuni capitoli e convenzioni.
39- I consoli dei luoghi non possono nè debbono adunare il Parlamento se non per consenso del Signore o di chi per lui tiene il luogo se non fino alla quantità ed al numero del Consiglio di detto luogo sicché costituiscano il consiglio tanti uomini quanti sono i Consiglieri.
40- Altresì predetto Signore alla festa della Purificazione elegga nel luogo di Apricale quattro consoli che abitino colle famiglie nel sito di Apricale e due residenti nel luogo dell’Isola i quali debbano reggere il diritto in siffatti luoghi.
41- Il Reverendissimo Signore ha inoltre la giurisdizione dei mulini ad Apricale ed Isola alla sedicesima ( o sedicesima parte del macinato da pagarsi come decima): tiene in affitto questi mulini, per centocinquanta scudi all’anno, tal Giacomo Cane.
42- Il Signore possiede la Bandita detta Oltrenervia coll’erbatico [tassa da pagare per il pascolo] di buoi e capre, e precisamente dei buoi (pagando) dal numero di tre in su per la ragione di due soldi e mezzo per ogni bue e da due capre in su (pagando) per la ragione di sedici denari a capra a prescindendo dalle prime due. Da dieci capre in su si paghi per detta ragione senza l’esclusione di alcun animale. Non tenendosi bestie in estate poichè come dice la sentenza a riguardo delle bestie da pascolarvi da quindici giorni dopo la festa di S. Michele al I maggio e dal I maggio sin a quindici giorni dopo tal festa, detto erbatico e Bandita spettano alla Comunità come dispone l’atto scritto a sua mano da Luchino Capone, fedefaciente: questa bandita il Signore per quel tempo che è sua ha l’autorità di venderla ogni anno ed a chiunque intenda comprarla, al prezzo convenuto tra questo ed il Signore colle solite servitù. Quelle per cui i compratori sono tenuti a dare al Signore un montone alla festa della Natività e tre forme di formaggio grasso: il prezzo della Bandita vien pagato per metà al giorno del Natale e la restante somma alla fine del mese di aprile, la qual Bandita nell’anno in corso si vendette al prezzo di settantatrè fiorini con le servitù di cui si disse.
43- Il Signore ha inoltre la completa giurisdizione delle acque affinché nessuno edifichi o costruisca mulini o edifici o qualcun altro edificio ad acqua.
44- Il Signore percepisce la dodicesima parte delle olive colle sanse, riservati i diritti delle comunità.
45- Riceve inoltre la decima del vino: precisamente in Apricale un quartino di vino per 20 quartini ed oltre i venti non si paga altro, da dieci a diciannove quartini si paga per dieci, da dieci a cinque si paga per cinque e sotto i cinque sol a rata.
46- La Comunità di Apricale e Isola è tenuta a versare al Signore per le decime del Vescovo venticinque mine, sotto la forma dei due terzi di mistura e un terzo di frumento.
47- Inoltre i pastori di dette bandite di Apricale ed Isola ed i caprari di tali luoghi sian tenuti al pagamento delle decime. I pastori paghino sulla misura di 41 bestie passando verso valle, di cui il nominato Signore ha diritto ai due terzi ed il Rettore della Chiesa al restante, mentre i caprai di detti luoghi di Apricale ed Isola del numero di quaranta capre debbano pagare tre bestie per decime, di cui due al Signore ed una al Rettore per singola sorta [sciorta dial.=gregge], mentre da quaranta in su non debbono versare altro e se il gregge è da quaranta in giù son tenuti per singola sorta.
……………..
55- Nessuna persona accetti lettere monitoriali se non su licenza del Signore o di chi per lui tiene il luogo.
56- Il Signore da chiunque sia riconosciuto spergiuro abbia a titolo di bannalità la somma di sessanta soldi.
57- Lo stesso Signore a riguardo delle bannalità che giungono alla somma di 5 lire abbia e debba avere quattro parti mentre i consoli ne ottengano la quinta parte.
59-Lo stesso reverendissimo Signore nel luogo di Isola annualmente riceva la decima del vino per il reverendissimo Vescovo intemelio, precisamente su dieci metrete ha diritto ad un quartino di vino o mezza metreta, oltre le dieci metrete nulla di più ha diritto di ottenere e nel caso di un quantitativo inferiore alle dieci metrete gli spetta solo un pagamento a rata da uno a dieci.
60- Inoltre il Signore deve al Vescovo suddetto una determinata somma annuale, di cui gli uomini debbono ignorare la consistenza.”.

da Cultura-Barocca

Isolabona, nodo strategico viario presso cui si poteva deviare continuando per la Valle del Nervia

Regione Bunda, verso Pigna

Insulae (ISOLE) di materiale alluvionale costituivano ripari per imbarcazioni e attracchi per commercializzare i prodotti vallivi (per questo esse furono spesso al centro di controversie: avevano peraltro rilievo per le colture che vi si praticavano e i mulini costruitivi: ISOLABONA nel Nervia, l’Isola dei Gorreti nel Roia sopravvissute ad oggi son prova dei depositi stabili, destinati a grande evoluzioni).

Ruderi della Cartiera

Il 3-I-1287, nell’atto di annessione amministrativa di ISOLABONA ad Apricale, il toponimo oscillava tra “Insula” e “Insula Bona” (= “Isola Buona” come “Salda, robusta, fidabile, perenne”).
Nei Diritti dei Doria (1523) il paese, alla confluenza fra Nervia e rio Merdanzo, aveva il toponimo “Insula” mentre a livello popolare il nome “Insula Bona” aveva preso il sopravvento (le isole delle foci, per quanto più esposte a cambiamenti geomorfologici, erano comunque di volta in volta punti di riferimento viario o strategico).
I “Diritti della Signoria dei Doria di Dolceacqua del 1523″ sancirono i privilegi nobiliari, tasse, gabelle, proprietà varie e lo jus di pedaggio.
Secondo gli “Jura” i Doria ad Isolabona (oltre che bandite, mulini, frantoi, giurisdizione degli acquedotti e delle fonti) tenevano un CASTELLO, una CARTIERA, una “casa” nel “piano ovvero piazza dell’isola, con un’altra stalla presso detta casa”.
I Doria possedevano poi un “campo”, in località “lo chian de la noxa” affittato a tal Giacomo Cane con un contratto che prevedeva l’esborso annuo in natura di 5 mine e 6 quartari di prodotto agricolo.
La Signoria possedeva “un prato in località S. Giovanni”, un altro in luogo “la morinella” ed “un altro ancora in località Gonteri“.

La vallata verso Apricale

Erano altri beni dei Doria un bosco di castagni “in luogo detto Ortomoro” (il toponimo par rimandare ai tempi dei Mauri, Mori e Saraceni) sulle alture di Isolabona, condotto da Giovanni Roberto e Giovanni Boero, che pei Signori gestivano anche la “fascia curla” (che prendeva nome da un antico possesso della nobile famiglia intemelia dei Curlo) nel territorio di Apricale.
La Signoria, secondo i dettami dei suoi DIRITTI, teneva, sempre nelle vicinanze di Isolabona, un “mulino grande” con la potenzialità di “centoventi mine buon grano ed 80 di grano di mistura“.

Essa aveva anche il possesso di tutti i frantoi, gli “aedifica oleorum“, e gli abitanti del luogo (non solo gli addetti alla olivicoltura) eran tenuti a portar solo lì “a frangere” le olive ed a non valersi di mulini fuori giurisdizione.

La tassa da pagare era della dodicesima porzione del prodotto e della totalità delle “sanse“: l’atto rimanda ad un’antica consuetudine ed è quindi giusto pensare che l’industria olearia, colla sua peculiare giurisdizione, si perdesse nel monopolio dei primi Benedettini.
Questa convinzione trova conforto dal capo successivo dei Diritti laddove viene precisato che i “Signori” avevano “da sempre” la totale “giurisdizione delle acque“: in modo tale che nessuno , tranne naturalmente il Signore, potesse edificare o costruire “molendina” (mulini per granaglie) o qualche altro aedificium” (frantoio)”.

Tracce di un’antica Signoria Bannale

Ventimiglia (IM) - Porta Canarda
Ventimiglia (IM) – Porta Canarda

Per quanto non se n’abbia documentazione corretta, in EPOCA CAROLINGIA il COMITATO (CONTEA) DI VENTIMIGLIA (oggi in provincia di Imperia) senza dubbio vantò dei propri Conti.
Nella RISTRUTTURAZIONE IN GRANDI MARCHE DELL’ITALIA DI NORD OVEST, sancita nel 950-51 da BERENGARIO II per affrontare il pericolo saraceno, il Comitato di Ventimiglia risultò soggetto al marchese Arduino il Glabro, come risulta dal privilegio alla comunità di Tenda, Briga e Saorgio, posta nel Comitato di Ventimiglia.
Non è noto se i marchesi governassero direttamente questo Comitato sotto il titolo conti oppure se esistesse una dinastia di conti locali, subordinati ai marchesi.
La serie accertata dei conti di Ventimiglia data dal 1038 con Corrado, figlio di Corrado.
A Romeo Pavoni si deve forse la più esauriente topografia del COMITATO INTEMELIO.
Dopo aver rammentato che tutti i COMITATI CAROLINGI DELLA LIGURIA ricalcavano in definitiva la strutturazione amministrativa degli antichi municipi imperiali romani, lo studioso specificatamente scrive: “A occidente il Comitato di Ventimiglia ripeteva lo stesso confine della civitas tardo imperiale: dal Monte Bego all’Alpis Summa, la medievale Turbia, comprendendo il bacino della Roia e lasciando la valle della Vesubia al Comitato di Nizza. Era lo spartiacque alpino che in precedenza aveva segnato il confine fra le Gallie e l’Italia, quando, nel III secolo, la striscia costiera tra il Varo e l’ Alpis Summa, che dipendeva originariamente da Marsiglia, fu annessa alla Provincia delle Alpi Marittime. Su questo lato i confini diocesano e comitale coincidevano: la documentazione medievale attesta che alla Diocesi e al Comitato di Ventimiglia appartenevano Tenda, Saorgio, Breglio, la Menour, Sospllo, Braus, Castiglione, Gorbio, Roccabruna e la vallis Carnolensis presso il monte Agel. Un problema a sé è costituito da Monaco la cui dipendenza è incerta.
Anche a settentrione il confine era dato dallo spartiacque alpino, che divideva la Diocesi e il Comitato di di Ventimiglia dalla Diocesi di Torino e dal Comitato di
Bredulo [compreso tra la displuviale della Stura-Gesso, lo spartiacque della Alpi Marittime, il Casotto, la Corsaglia, il Tanaro e la Stura].
Più complicata è l’individuazione del confine orientale con la Diocesi e il Comitato di Albenga. Il torrente Armea, considerato generalmente come elemento separatore fra i due comitati, divideva in realtà, nel suo corso inferiore i
fines Matutianenses dai fines Tabienses. Infatti Taggia, Bussana e Arma appartenevano al Comitato di Ventimiglia, che pertanto doveva arrivare fino al torrente San Lorenzo e al Monte Faudo, ove iniziava il territorio di Porto Maurizio, compreso nel Comitato di Albenga.
Più a nord il confine doveva seguire la displuviale fra le valli dell’Argentina, da un lato, e di Oneglia e dell’Arroscia, dall’altro fino al Monte Saccarello.
Infatti nella prima metà del XIII secolo il conte Oberto di Ventimiglia era il signore di Rezzo, Carpasio, Montalto, Badalucco, Arma, Bussana, Baiardo, Castelvittorio e Triora.
Di fatto dominava l’intera valle Argentina: una signoria talmente vasta e compatta che poteva essergli pervenuta soltanto come erede degli antichi titolari del Comitato di Ventimiglia, che doveva dunque comprendere questo territorio
“.

Poco è invece risaputo in merito alla società ventimigliese di questa età. Di sicuro la maggioranza della popolazione era formata da discendenti dei liguri romanizzati di Albintimilium, ma sembra arduo meditare su una possibile correlazione culturale.
Le professioni di legge romana, contenute in documenti propri di questo periodo, non devono fuorviare gli studiosi: in esse non si rispecchia un sistema sociale, demico e giuridico, che aveva custodito gli elementi portanti dell’ecumene romana e che comunque continuava ad operare seguendo i dettami della struttura legislativa e giurisdizionale propria della classicità imperiale. A Tenda, a Briga, a Saorgio, per esempio, la costumanza del duello giudiziario era sì proibita in particolari contingenze onde favorire gli abitanti nei riguardi del conte e degli stranieri, ma era al contrario, pienamente, accetta ai fini della risoluzione di contenziosi intercorrenti fra siffatti abitanti. E del resto si evince dall’analisi critica di antichi documenti che ancora verso il 1162 questa sorta di ordalia d’ascendenza germanica vigeva senza problemi nel contesto di persistenze controversie tra le comunità di Briga e Tenda. Peraltro la federazione instaurata il 29 maggio 1233 fra Briga, Tenda, Saorgio e Breglio sanciva la possibilità, da parte di fosse accusato d’un furto, di chiedere ai giusdicenti la prova del ferro rovente.
A Ventimiglia, nell’alta valle del fiume Roia e così pure nei fines Matutianenses e Tabienses, prendeva intanto piede una classe di uomini liberi in possesso sì di beni allodiali e beneficiari, ma in rapporto vassallatico con i conti, cui dovevano sempre garantire le proprie prestazioni militari. La citazione di “manenti”, doverosamente redatte nelle consuetudini di Tenda, Briga e Saorgio o, parimenti, dei famuli Sancti Siri a Sanremo, attesta inoltre lo sviluppo crescente di una classe di servi e semiliberi, variamente legati alla terra.

Il quadro generale, in ossequio alla scuola storica di tradizione giuridica, è quindi quello per cui i CONTI DI VENTIMIGLIA potessero essere espressione compiuta di un’antica SIGNORIA BANNALE.

Tracce di siffatta postazione giuridica e giurisdizionale paiono comunque riflettersi nella rara e quindi preziosa documentazione penale superstite del paese, in val Nervia di Apricale in cui, pur nell’effimera esperienza comunale, persistettero norme giuridiche proprie della SIGNORIA BANNALE e peraltro derivanti dalla LEGGI GERMANICHE DEL DIRITTO.
Oltre a ciò vale la pena di menzionare come allo scontro fra popolo e SIGNORIA BANNALE, con tutto il relativo concorso di altre istituzioni, si sia evoluto e sia quindi maturato lo scontro, avverso la decadente feudalità dei Conti intemeli, del LIBERO COMUNE DI DOLCEACQUA.

A fronte del generale degrado di cui si è detto, sarebbe comunque errato ritenere che nel comitato intemelio mancasse un’attività marinaresca. I possessi lerinesi a Ventimiglia, a Saorgio e a Seborga, i diritti della Chiesa di Genova sui fines Matutianenses e Tabienses inducono a pensare, senza troppi interrogativi, alla necessità di comunicazioni, anche mercantili, supportate da una navigazione di cabotaggio, sia con la Provenza che con Genova.
L’idea di un sufficiente spostamento per via di mare è confortata da documenti corretti quanto esaustivi: si può menzionare, a guisa d’utile esempio, quello che riporta notizie sul viaggio marittimo compiuto nel 1038, dal conte intemelio Corrado, proprio a Genova al fine di concedere l’immunità sui beni della Chiesa, od ancora è utile citare la tariffa doganale genovese del 1128 che, imponendo un dazio di quattro denari pavesi antichi a ogni mercante di Ventimiglia e di Albenga, in definitiva permette allo studioso contemporaneo di tracciare una plausibile linea di considerazioni sulla frequenza degli spostamenti marinareschi, per traffici e per mercanteggiare, da parte dei ventimigliesi .
Allo stato attuale delle documentazioni sembrerebbe tuttavia che Ventimiglia non abbia risentito di un progresso mercantile prossimo a quello di altri centri liguri medio-grandi come Savona, Noli e Albenga. Una prova di ciò, a giudizio di Romeo Pavoni parrebbe da individuarsi nel fatto che i residenti intemeli, contrariamente a quanto accaduto per i savonesi, i nolesi e gli ingauni, non siano stati abitualmente elencati fra le comunità mercantili citate entro i trattati che all’inizio del XII secolo i genovesi stesero con gli Stati Crociati d’Oltremare.
L’argomentazione del Pavoni sembra un po’ speciosa, quasi si tratti di una puntualizzazione non richiesta: in effetti, nel contesto di siffatti trattati, i ventimigliesi risultavano parimenti tutelati e del resto erano compresi nella citazione comunitaria ed onnicomprensiva con cui si segnalavano i residenti compresi fra Nizza e Portovenere.
Non si può invece far a meno di concordare col Pavoni laddove ipotizza, a proposito dei ventimigliesi, una ancora ridotta autonomia politica rispetto al potere comitale: per esempio a confronto di Savona, che aveva ottenuto il riconoscimento del proprio diritto consuetudinario già alla metà dell’XI secolo, o del Comune di Alberga, che intratteneva rapporti paritetici con la potente repubblica marinara di Pisa nel 1145, 1’esistenza a Ventimiglia di un regime autonomo, gestito dai consoli, risulta citato solo nel 1149 quasi fosse una conseguenza politica, a scapito dei feudatari, dell’occupazione genovese.
Non si può negare quanto ancora dice il Pavoni: sino alla metà del XII secolo non il Comune intemelio ma il conte Oberto rappresentò la vera controparte politica e diplomatica di Genova: ed in effetti, nel 1146, mentre il neonato Comune nemmeno partecipò alle trattative, fu proprio il feudatario che “trasmise nelle mani” di Genova la giurisdizione sulla città.
E’ vero che, al modo che richiedevano usanze e consuetudini legali, la città di Ventimiglia, in quanto complesso demico coinvolto nella vicenda, poté proporre dei suoi rappresentanti alla stesura degli atti ma questi non erano affatto suoi pubblici ufficiali o suoi consoli: molto formalmente, e quindi inefficacemente sotto il profilo decisionale, si trattava solo di testimoni garanti, pur costituiti da cittadini di rilievo sociale quali Alberto Guercius, Guglielmo Travaca e Anselmo Balbus .
La robustezza del governo comitale sulla città e contestualmente l’ancora evidente incompiutezza del processo evolutivo comunale, sembrerebbe collateralmente giustificata da una qualche limitazione nella valenza politica dell’Episcopato intemelio. Anche in questo caso, contrariamente a quanto si può evincere a riguardo dei vescovi di Albenga o di quelli di Savona, che ebbero in signoria temporale parti delle rispettive diocesi e che comunque ressero con decisione un ruolo politico all’interno della città, i vescovi intemeli, per quanto è oggi dato di ricostruire, sembrerebbero esser stati a lungo, in uno stato di imprevedibile difficoltà sia difronte al potere comitale che di rimpetto ad altre interferenze spirituali: per esempio risultarono estranei al processo di formazione signorile che coinvolse il territorio di Ventimiglia e contestualmente patirono in modo palese la concorrenza dei monaci di Lerino, non solo nel contado ma nello stesso nucleo demico cittadino, in merito soprattutto all’impianto della chiesa di San Michele.
E’ poi rimarchevole il fatto che i vescovi intemeli non siano stati in grado di arginare l’espansione della solida diocesi ingauna allorché questa prese ad assimilò i distretti tabiese e matuziano nel momento in cui la Chiesa di Genova, per varie motivazioni, si vide costretta a rigettare le prerogative spirituali che storicamente vantava in questo ambito geopolitico.

Il ritardo economico e sociale di Ventimiglia, sempre secondo il Pavoni, sarebbe stato registrato celermente dai genovesi che, programmando una serie di loro interferenze sul territorio (anticipatrici di una sua totale conquista ed assimilazione in forza di TRE DURI CONFLITTI), trasferirono a Ventimiglia alcuni abitanti di Montesignano, in Val Bisagno, e li associarono quali nauclerii alle costumanze del locale traffico mercantile .
Ferma restando la plausibilità dell’ipotesi, valutando però la povertà di documentazioni allegate dallo studioso in merito a questa sua affermazione, nulla vieta, mutatis mutandis , di rovesciarne l’affermazione e di sostenere che l’infiltrazione di marinai e padroni di barca della fedele valle del Bisogno rappresentasse un espediente per agevolare la non facile penetrazione militare e politica di Genova nel contesto ventimigliese.
Del resto il matrimonio del nobile genovese Giovanni Barca con Marsibilia, figlia di Anfosso, conte di Ventimiglia, probabilmente fratello o padre del conte Oberto, pare mascherare un piano diplomatico di Genova mirante a posizionare negli alti ranghi della società nobiliare ponentina dei suoi elementi altrettanto fidi e capaci sia di condizionare la politica comitale quanto di interferire sullo sviluppo della struttura comunale.
Non sembra affatto contraddittorio che il 18 giugno 1131 i consoli di Genova, seguendo il lodo del magistrato astigiano Berardo, abbiano poi deliberato contro il proprio concittadino e quindi assegnato al conte Oberto il feudo del defunto conte Anfosso. La generosità di cui parla il Pavoni sembra completamente estranea a questa fine opzione politica: le rivendicazioni di Giovanni Barca erano state certamente il principale strumento di persuasione sul conte Oberto, prigioniero a Genova, per indurlo, pur di rovesciare la sua situazione svantaggiosa, sia ad accettare il colpo di mano genovese su Sanremo sia a stipulare un trattato con il Comune, obbligandosi a garantire nel distretto di sua competenza sia la sicurezza dei Genovesi quanto la loro esenzione da ogni obbligo fiscale di esentarli usaticum e ripaticum.
Il programma destabilizzante nei riguardi della presenza comitale intemelia pare evidente e con una meta ben precisa la sottomissione ufficiale del conte Oberto che verrà sancita nel 1146 .
A monte di tale sviluppo socio-politico i genovesi si erano fortificati dal lato diplomatico internazionale ottenendo dall’imperatore Corrado III l’autorizzazione a ristabilire nel territorio di Ventimiglia uno stato di sicurezza a garanzia tanto dei pellegrini quanto dei viandanti a danno dei quali sarebbero state denunciate molteplici rapine cui l’autorità feudale, per ignavia, incompetenza od impreparazione, non aveva mai saputo rimediare.
Sotto la protezione di questa altissima autorizzazione, Genova ebbe via libera per occupare militarmente Ventimiglia, erigervi un castello custodito da una sua guarnigione, obbligare tutti gli abitanti ad un giuramento di fedeltà e quindi rimettere ordine nelle vie contro predoni e briganti.

da Cultura-Barocca

Su alcune presunte streghe del ponente ligure

Baiardo (IM)
Baiardo (IM)

Il Governo genovese voleva ricondurre questi procedimenti (il caso delle presunte STREGHE DI TRIORA) nella giurisprudenza penale con l’arrivo in Triora (8 giugno 1588) di un commissario straordinario, tal Giulio Scribani, che non ebbe però occasione di indagare sulle “streghe” ivi detenute, trasferite poco dopo in carcere a Genova per dar momentanea soddisfazione all’orgoglio ferito del Padre Inquisitore che aveva preso a rivendicare i suoi diritti per la revisione del processo a loro carico.
Il commissario governativo rimase invece nella Podesteria di Triora, indagando su altri casi di stregoneria e concentrando le sue indagini anche sulle dipendenze del borgo principale, come Andagna.

L’inchiesta sul caso di Triora  procedette fra continue contraddizioni e qualche condono di legge come quello per un’altra minore, una ragazza di 13 o 14 anni di Baiardo, tale Giovannetta Ozenda, che confessò d’aver partecipato ad una sorta di sabba e di aver appreso l’arte di “far la polvere, con quale queste malefiche attossicano le persone cioè di ROSPI ARROSTITI” (come riporta il Ferraironi (p. 73): stando alle indagini del Ginzburg (p.287) questa POLVERE DI ROSPO non sarebbe stata pura voce di fantasia ma uno fra i vari tipi di UNGUENTO STREGONESCO tenendo conto del fatto che nella pelle di rospo è contenuta la BUFOTENINA sostanza cui sono attribuite delle spiccate PROPRIETA’ ALLUCINOGENE.

La Ozenda fu comunque perdonata, vista la giovane età, con la momentanea ideazione d’affidarla ad un tutore o ad un monastero: perdoni suggeriti di legge, come detto, a vantaggio dei minori di anni 14 sia entro gli Statuti Criminali genovesi che nei più aggiornati testi di commenti giuridici ad uso degli Inquisitori eclesiastici) lo Scribani finalmente spedì il 22 luglio 588 i processi di quattro streghe di Andagna, con la proposta della condanna a morte. Leggendo i documenti riportati dal Ferraironi si intende altrettanto bene che, a ragione di un evidente piano governativo a salvaguardia delle leggi criminali statali, lo Scribani aveva proposto la pena di morte per delitti non di provata stregoneria ma sicuramente connessi con reati punibili secondo gli Statuti Criminali (avvelenamenti, procura d’aborti, esercizio colpevole della funzione di balie ecc. ma nessuna attestazione d’eresia, tale ciò da dover passare la pratica all’Inquisitore ecclesiastico.

La più eclatante dimostrazione di questo concerto governativo, per eludere le interferenze dell’autorità ecclesiastica, lo suggerisce altresì il fatto che il Governo da un lato prorogò da due a tre mesi la missione in Triora e circondario dello Scribani (coll’esplicita richiesta di indagare non su delitti comuni ma solo su veri casi di stregoneria: ottima formula per soddisfare alla luce del sole le proteste dell’Inquisitore ecclesiastico e le richieste della popolazione locale ma con lo scopo vero di concedere al commissario tempo ulteriore al fine di ammorbidire le tensioni e quindi formulare una risposta comoda ed evasiva – onde cancellare la fastidiosa vicenda – come quella di “non poter più raccogliere prove significative per esser tanti indizi, vista la longhezza di tempo [ormai trascorsa],andati in oblivione“). Dall’altro lato la Signoria affidò la revisione dei processi e delle condanne capitali all’uditore Serafino Petrozzi che, più o meno intenzionalmente accentuando la generale confusione, negò il valore giuridico delle condanne, perché lo Scribani aveva formulato le sue sentenze di morte per delitti condannabili secondo gli Statuti Criminali (senza tuttavia possedere, a giudizio del Petrozzi, prove esaustive) mentre, anche se ree confesse per stregoneria (sic), le donne in causa, a giudizio del Petrozzi, non si sarebbero dovute condannare dall’autorità laica perché sulle loro presunte attività diaboliche solo al tribunale ecclesiastico sarebbe spettato sentenziare, trattandosi di materia religiosa.

Per quanto molti abbiano scritto su questa vicenda, l’impressione è che tanto l’autorità ecclesiastica che quella dello Stato mirassero a sminuire la sostanza dei fatti: sì da giungere a un ridimensionamento della questione (principio discutibile secondo i capi 10 e 90 del libro II degli Statuti criminali genovesi del ’56).
I deliberati del Petrozzi, a rigor di una letteratura giuridica che interpretava la “stregoneria” come emanazione dell’ “”Idra eretica”, avrebbero potuto risolvere il tema basilare delle priorità inquisitoriali; l’interpretazione , avversa a quella dello Scribani, aveva dimensionato il problema delle “streghe di Triora” entro i parametri dell’Inquisizione ecclesiastica, stabilendo con forzatura nell’interpretazione dei capitoli criminali genovesi 10, 25 e 90, la priorità del Santo Ufficio sulle Curie.
La Signoria e il Senato, nonostante le pressioni ricevute per ratificare questa soluzione “ecclesiale” del problema della “stregoneria”, non intesero dar prova di debolezza a fronte del Sant’Ufficio, dell’Arcivescovo e dell’episcopo ingauno), temendo il dilagare del problema ed una pratica impossibilità a controllarlo: ne è prova che la sentenza del Petrozzi non venne ratificata e allo stesso magistrato, per una revisione del processo, furono affiancati due commissari, Giuseppe Torre e Pietro Alaria (od Allaria) Caracciolo.

Castelvittorio (IM), al tempo dei fatti qui narrati ancora  Castelfranco
Castelvittorio (IM), al tempo dei fatti qui narrati ancora Castelfranco

Questo triumvirato di nuovi consultori operanti sul caso delle Streghe di Triora, dotati di ampia facoltà inquisitoriale (assieme ad altre sanzioni di condanne, poi cassate, contro streghe individuate nei siti fra Triora e CASTELFRANCO – oggi Castelvittorio (IM)-), rovesciando il giudizio del Petrozzi confermarono le 6 condanne capitali dello Scribani.
Il Senato ratificò 5 esecuzioni (tramite impiccagione e conseguente bruciatura dei cadaveri in conformità dei capi criminali avverso profanatori di luoghi santi, peccatori contro natura, falsari, ed altro: con attenzione al capo 20 “dei Ladri”, del libro II, ove si cita la morte sul rogo applicabile contro eretici e sacrilegi): dalla sanzione senatoriale a tergo della relazione dei 3 commissari (A.S.G., Lettere del 1588) – nonostante o forse proprio per una richiesta, in base ai toni del comandamento, da inoltrare al vescovo di Albenga onde far riconciliare con la Chiesa le condannate prima della sentenza – si evince che il consenso per l’esecuzione voleva essere una pubblica affermazione governativa, la quale ancora una volta puniva col capestro (impiccagione) le donne come “criminali comuni”, concedendo all’Inquisizione il rogo post mortem (con dispersione in luoghi profani di ceneri o resti) applicato per quei delitti, non di “stregoneria”, che risultassero avversi alle leggi dello Stato ed alla morale, sia cristiana che della società onesta (St. Crim., II, 2 “Su quanti peccano contro natura >sodomiti – omosessuali” e capo 3 “Sugli adulteri e stupratori”).

Come annota il Ferraironi (p.79) si sarebbe quindi dovuto procedere (4 in Triora o in Andagna e 1 in Castelfranco) all’esecuzione pubblica delle sentenze capitali [Pene combinate> Stat. Crim., II, 18, 64, 70 ecc.: l’esecuzione della GENTILE di CASTELFRANCO sarebbe avvenuta nel borgo natio “per essere di essempio et gran terrore a molte altre malefiche esperte“) con impiccagione lenta e rogo post mortem, al limite l’inumazione in terra non consacrata conformemente a suggerimenti contenuti nel t.III, sez. XIX delle Disquisitiones Magicae di M. DELRIO].
La procedura fu sospesa, vista una subitanea, ma non imprevista, opposizione del Padre Inquisitore di Genova che, con rigida interpretazione degli ordini del Sant’Ufficio, avanzò eccezione che spettasse all’Inquisizione il diritto di istituire i processi di “stregoneria”.
Lo Stato, che aveva proceduto con cautela, non disdegnò l’opportunità di sospendere le esecuzioni capitali facendo scrivere alla Congregazione del S. Ufficio di aver accolto la petizione dell’Inquisitore genovese “con quel perpetuo zelo che viene in noi di servire a codesta Santa Sede et a compiacere Vostre Signorie Illustrissime (i Cardinali del Sant’Ufficio)”.

Questo accondiscendimento del governo non deve confondersi con arrendevolezza.
La convenienza politica e diplomatica di intrattenere prudenti rapporti col Sacro Palazzo di Roma si manifestava specie in occasione di “cause miste”, come quelle connesse coi sempre strani “delitti di stregoneria” in cui spesso si intrecciavano violazioni tanto dell’elemento profano che di quello spirituale, di modo che, insorgendo conflitti giurisdizionali fra giudici laici ed ecclesiastici, potevano evolversi ulteriori contenziosi fra uno Stato tradizionalmente geloso delle sue prerogative e l’organizzazione della Chiesa intenta ad affermare la propria autorità [riaffermando con decisione il cap.89 del lib. II degli Statuti Criminali del 1556 -negli Advertimenti sopra il governo della giustitia in Genova- al cap. XI si legge: “Che li ministri di giustizia siano obligati favorire et con tutte le loro forze agiutare il Sant’Offizio dell’Inquisizione, et la corte dell’Arcivescovo di Genova, dandogli il braccio seculare gagliardo, ad ogni minima requisitione loro”.
Questo punto verrà fuso nel cap. I “Sulla religione” delle “Leggi Nuove” del 1576, v. F.RUFFINI, Relazioni tra stato e chiesa. Lineamenti storici e sistematici, Bologna, 1974.

Tuttavia, a prova di una soluzione mai veramente raggiunta, è da notare che ancora nel triennio 1587-1590 si conducevano tra Stato ed Arcivescovo genovese trattative per definire le rispettive sfere di giurisdizione.
Nel marzo del 1590 si tennero incontri fra la delegazione genovese (Stefano Lazagna, G.B.Senarega, Pasquale Sauli e Gio.Andrea Costapellegrina) e quella arcivescovile a riguardo dei delitti di competenza del foro ecclesiastico o di quello civile, quali mixti fori, e sulle pene che la Curia arcivescovile potesse comminare ai laici.

La questione delle “streghe di Triora” era esplosa in concomitanza con un problema di competenze giurisdizionali, controverso o da definire.

In questo contesto si potrebbe anche ricondurre l’ambiguità di atteggiamento di volta in volta assunto dalle due Istituzioni, laica e religiosa, allo scopo di non compromettere la difficoltà di progressi, sempre lenti in questa materia].
Il commissario di Triora, su sollecitazione governativa, non tardò ad inviare nelle carceri dell’Inquisitore di Genova, per mare, partendosi dal porto di Sanremo, le 5 “streghe” facendo, in una lettera Doge e Governatori di Genova, cenno alla delusione di “questi populi (che) sono restati molto attoniti di questo fatto (la mancata esecuzione) poichè per esempio averiano avuto grandissimo piacere si fusse eseguita la sentenza, contro loro (le presunte streghe) data, in questo paese” (FERRAIRONI, p.80).

Gli studiosi si sono interrogati sulla fine di queste streghe, se le ultime 5 fossero state aggregate nelle carceri dell’Inquisitore di Genova alle 13 “fattucchiere” della precedente inchiesta (sempre che queste non fossero già state liberate e in segreto rinviate a casa): ma in fondo, al diritto ed alla diplomazia poco importava ormai quante fossero le streghe, se alcune di loro languissero per salute malferma, se in tempi diversi ne morissero alcune (su 5 sussiste relativa certezza).
Per quanto l’argomento sia interessante -e ben trattato dal FERRAIRONI, cap. IX e X- è importante evidenziare l’insignificanza del problema “stregonesco” a fronte della sua composizione giurisdizionale.

Questo risultato (specificatamente al contenzioso in oggetto e giammai trasformato in normativa) lo ottenne la diplomazia genovese con petizioni al Sacro Palazzo (tra febbraio e aprile 1589) e coll’ausilio di Cardinali filogenovesi in seno alla Congregazione come Giustiniani, Sauli e Pinelli.
Dopo una lettera personale (23-IV-1589) del cardinale Antonio Sauli (che difendeva presso la Santa Sede i diritti della Repubblica: vedi M. ROSI, Storia delle relazioni tra la Rep. di Genova e la Chiesa romana specialmente in rapporto alla riforma religiosa, in “Memorie della Regia Accademia dei Lincei”, XXX, 1898), si ebbe una sanzione definitiva con una epistola (28-IV-1589) del cardinale Giulio Antonio Santori di Caserta, reggente della Diocesi calabrese di Sanseverina, che, scrivendo alla Signoria, comunicò ch’eran stati dati gli ordini necessari onde porre fine alla causa, procurando per un verso di “salvare la vita a sudditi della Signoria” e facendo sì che “in breve si manderà l’ordine per l’espedizione di quelle che sono state processate e condannate dal detto commissario, secondo la dotta e religiosa risoluzione di questa sacra Congregazione”.
Da qui il Ferraironi (p.83) deduce una graduale, ma silente liberazione ( o emarginazione, in residenze coatte?) delle donne accusate di stregoneria, detenute dal giugno 1588 nelle carceri genovesi.

da Cultura-Barocca