Cenni sulla storia di XVI e XVII secolo relativa a Ventimiglia (IM) e zona (intemelia)

Ventimiglia (IM): Loggia dell’Antico Magazzino dell’Abbondanza

Nel 1622 (alla vigilia della guerra di Genova col Piemonte) i sudditi intemeli erano arruolati come soldati locali (“militi villani” di guardia alla frontiera e alle mura) e protestavano per il regime di vita: “La città di Ventimiglia [IM] ed abitatori di essa hanno per conto delle loro milizie il solito Colonnello che da Vostre Signorie Serenissime vien deputato, al quale ubbidiscono con ogni prontezza in tutto ciò possa concernere per servizio pubblico e disciplina militare. E’ vero che, pretendendo il Colonnello di fare la rassegna dei Cittadini, cosa che non si costuma nelle altre città del Dominio di Vostre Signorie Illustrissime, non vorrebbero essi essi cittadini che, per non cedere ad alcuno di fedeltà ed ubidiedenza, aver questo disvantaggio, posciaché quanto alla disciplina militare ben si sa che essi fanno tutte le funzioni ed avendo più obblighi e carichi e per la sanità e per il castello e per le guardie notturne e diurne di quello che abbino li altri Cittadini d’altre città del Dominio di Vostre Signorie Illustrissime, aggiungendosi a questo l’obbligo di assistere alla fabbrica del Ponte [Edificazione del ponte cinquecentesco di Ventimiglia, parte in muratura e parte in legno, andato distrutto poco dopo metà ‘800 per una piena del Roia e realizzato secondo la tecnica fiscale della sequella] vorrebbero a tal risegna esser fatti esenti“(“Petizione” dei Sindaci di Ventimiglia: si allude ai restauri degli edifici pubblici, ai lavori prestati da popolari e villani per la costruzione del ponte, alla necessità di tener pulita la palude che univa per la piana i mal arginati Roia e Nervia).

Ventimiglia (IM): uno scorcio delle antiche mura

Nel 1625 solo i militi villani (cioè reclutati tra i solidi abitanti delle ville)” si opposero a Carlo Emanuele di Savoia (in una prima GUERRA contro Genova sull’arco ponentino) e la loro IRA INSURREZIONALE si scatenò poi in una vera e drammatica RIVOLTA contro i comandanti delle poche truppe di Genova (pronti a rapida fuga) e contro i Magnifici di Piazza disposti a una resa disonorevole di VENTIMIGLIA E DELLE SUE FORTIFICAZIONI.

Il Vescovo Gandolfo, per quanto apprendiamo da una RELAZIONE PRESUBIBILMENTE DI G. G. LANTERI indubbiamente filonobiliare, pacificò gli animi inaspriti dei “villani” che s’erano riversati a centinaia nella città, depredando ogni cosa (grazie al Prelato e con l’aiuto della Spagna la Repubblica il 14 settembre, riprese Ventimiglia e ville (occupate dai “nemici”) pacificandosi ufficialmente col Piemonte nel 1634). Degli eventi esiste pure una contestuale RELAZIONE DEL VESCOVO GANDOLFO (questa che venne consultata presumibilmente dal Lanteri fu trascritta entro una sua opera dal II Bibliotecario dell’Aprosiana Domenico Antonio Gandolfo come qui si legge)

Nonostante questa loro fedeltà a Genova, i residenti delle Ville soffrivano più di chiunque i periodi di guerra e di carestia: per essi rifornirsi di vettovaglie, in casi di emergenza, presso il Pubblico Magazzino in Ventimiglia costituiva un’impresa logistica e burocratica cui si tentò, o forse si “finse”, di porre rimedio poco dopo la I metà del XVII secolo.

All’8 settembre 1655 risalgono i (rivisitati, per comodo anche delle Ville) CAPITOLI DELL’UFFICIO DELL’ABBONDANZA (manoscritto originale in Biblioteca Rossi, VI, 74 h presso Ist. Internazionale di Studi Liguri – Bordighera). Nell’ambito della Repubblica di Genova si indicava con tale termine l’organismo preposto alla pubblica annona cioè a quel complesso di uffici dell’amministrazione statale che avevano il compito di provvedere viveri, indumenti ed altri generi di prima necessità per il rifornimento della popolazione, specie in periodi di carestia.
Il termine ANNONA, dal latino dotto, vale per produzione agricola annuale di un territorio e quindi quale pubblico approvvigionamento di viveri: l’equivalente abbondanza non fu tuttavia usato in solo area genovese e già nel XIV sec. lo storico fiorentino G. Villani nella sua Cronica (12-119 edita a Firenze per I. Moutier e F. Gherardi Dragomanni nei 1844-45) scrisse: ” … si provvide per gli ufficiali dell’abbondanza di fare quadrare i passi a confini...” mentre il celebre marchigiano del XVI secolo Annibale Caro definì “abbondanziere” il magistrato preposto a tale ufficio (Lettere scritte in nome del cardinale Alessandro Farnese, 3 voll., Padova, 1765, I 353).

Il termine Abbondanza, benché sinonimo di Annona, comportava una valenza militaresca di cui ancora nel XIX secolo si sentiva la arcaica portata: “…Abbondanziere: chiamavasi con questo nome negli eserciti coloro ai quali o per appalto o per altro dovere spettava la cura dell’abbondanza, cioè dei viveri dei soldati…” (v. Dizionario teorico-militare, compilato da un ufficiale del già Regno d’Italia, 2 voll., Firenze, 1847, sotto voce).

Abbondanza od Annona che fosse, l’Ufficio che la gestiva aveva in teoria la funzione di presiedere coi propri vettovagliamenti alle esigenze della popolazione, specie più povera, in periodi particolarmente calamitosi, anche se tale organismo, spesso appaltato o malgestito non produsse sempre gli effetti desiderati, tanto che i pensatori del XVIII-XIX secolo finirono per attribuirgli più difetti che qualità “…un vecchio errore di economia pubblica, l’annona, erasi convertito in sangue e succo dei nostri popoli...” (così Pietro Colletta, Storia del Reame di Napoli, 4 volumi, Capolago, 1834,I,32).
Secondo l’economista genovese Girolamo Boccardo, autore del Dizionario della economia e del commercio (Torino, 1857-63) l’ANNONA era più estensivamente “il complesso delle leggi relative al commercio dei generi di prima necessità, massime frumentarie, come i magistrati addetti a farle osservare, ed infine i locali e magazzini pubblici delle Granaglie“.

Sotto quest’ultima considerazione di MAGAZZINO PUBBLICO si può giudicare l’Ufficio della Abbondanza istituito per Ventimiglia e Ville: da quanto reperibile dal documento di seguito trascritto l’Ufficio era stato istituito da tempo ma il suo funzionamento era stato tanto discusso e discutibile da rendere obbligatoria, all’8 settembre del 1655, la stesura di NUOVE NORME o CAPITOLI DELL’UFFICIO DELLA ABBONDANZA.

Ventimiglia (IM): Cattedrale di N.S. Assunta

I nobili di Ventimiglia, che ne ebbero sostanzialmente il controllo a scapito degli OTTO LUOGHI, non adempirono probabilmente ai loro compiti: ma ben si intende che gli aristocratici intemeli amassero controllare un organismo che gestiva cifre considerevoli e del resto il Commissario genovese (di cui non sappiamo il nome ma certo un Magnifico, dalla titolatura usata) se fece redigere dei CAPITOLI per il buon funzionamento dell’UFFICIO DELL’ABBONDANZA, ne affidò la cura provvisoria al nobile di Piazza Paolo Geronimo Orengo, ne concesse il controllo al discusso Parlamento intemelio e dei sei funzionari preposti all’Abbondanza ne attribuì quattro alla città e due alle ville, quando queste ultime erano già demograficamente superiori alla città e con abitanti più bisognosi dei soccorsi dell’Abbondanza.
Il primo capitolo sanciva appunto, l’istituzionalizzazione di 6 ufficiali preposti eletti dal Parlamento di Ventimiglia e Ville che però conferiva alla Città una pratica superiorità elettorale elettorale dei due terzi: cosi che a due agenti delle Ville ne sarebbero stati affiancati quattro per parte di Ventimiglia.
Tuttavia, e questo permette di recuperare ancor più l’idea di un istituto manovrato dalla nobiltà, il Commissario genovese tenuto conto che le Ville erano lontane (sic!) e i loro agenti dell’Abbondanza non avrebbero potuto, in caso di necessità, rapidamente coadunarsi coi colleghi per prendere opportune decisioni aggregò ai sei ufficiali, in perpetuo, il Sindaco del quartiere di Piazza (il quartiere cioè della nobiltà, nell’area della Cattedrale dove sorgevano le belle case dei Magnifici) che, quale Presidente avrebbe legalizzato le adunanze disertate per vari accidenti dagli abbondantieri delle Ville.

Nel contesto dell’annosa LOTTA DI SEPARAZIONE PER L’ECONOMICO TRA VENTIMIGLIA E SUE VILLE ORIENTALI la redazione del PRIMO CAPITOLO delle NUOVE NORME o CAPITOLI DELL’UFFICIO DELLA ABBONDANZA sembrerebbe andare incontro alle richieste dei villani specie di Bordighera (IM), che nel XVII secolo, almeno in due occasioni, protestarono per l’assenza di propri ufficiali presso un inefficiente ufficio dell’Abbondanza, per la lentezza del servizio e perché i loro panettieri, obbligatisi a valersi del grano del Magazzeno pubblico intemelio ma spesso impediti dal mal tempo e dalle alluvioni del Nervia e del Roia a recarvisi anche per la durata di dieci giorni, una volta giunti per il rifornimento si sarebbero sentiti rispondere che non vi erano più granaglie, con grave pregiudizio della popolazione distrettuale (senza calcolare la difficoltà d’accesso ad altri uffici presenti solo nella città tra cui IL LOCALE PUBBLICO OSPEDALE)

Bordighera (IM): Chiesa Parrocchiale di Santa Maria Maddalena

Tuttavia, a ben guardare, una petizione bordigotta del 1633 proprio coi riferimenti alle difficoltà di contatti con Ventimiglia se da un lato impose in pratica la stesura di capitoli e la concessione di Ufficiali dell’Abbondanza alle Ville dall’altro rese possibile riconoscere legittima la loro eventuale assenza dalle riunioni e concesse la facoltà legale di istituire una Presidenza che garantisse il numero e la valenza statutaria all’organismo sì che le riunioni, a fronte dei controlli delle Autorità genovesi, risultassero fattibili e legittime.

Bordighera (IM): Porta Sottana [con lo stemma di Genova]
In effetti circa novanta anni prima (7 giugno 1543) due esponenti del COLLEGIO DEI PROTETTORI DI SAN GIORGIO, Giovanni Imperiale e Antonio de Fornari con le loro ordinazioni, e alla presenza dei rappresentanti delle Ville Antonio Rondelli e Giovanni Antonio Guglielmi e di Ventimiglia i “Magnifici” Battista Galeani e Luca Sperone, avevano tentato una COMPOSIZIONE IN 36 CAPITOLI dei rapporti socio economici tra la Città di confine e le sue dipendenze rurali.
In particolare preso atto della non corretta gestione di sanità si tentò anche di instaurare un più corretto rapporto sulla gestione del pubblico ospedale (punto 34) e di meglio controllare l’operato del medico pubblico (punto 27), ma l’unico vero e concreto risultato si sarebbe ottenuto, con molto altro, solo dal 1693 con l’equiparazione dei diritti tra villani e cittadini nella fruizione dell’OSPEDALE DI SANTO SPIRITO essendosi ormai ratificata la Magnifica Comunità degli Otto Luoghi ed essendo in atto l’annosa procedura di divisione tra le aree amministrative.

Ventimiglia (IM): l’antico Ospedale di Santo Spirito

L’inghippo evidente, a scapito delle Ville, stava nel fatto che la Presidenza venne conferita al Sindaco rappresentante della aristocrazia intemelia: come nel caso del serpente che si morde la cosa o nel giuoco di “prestigio” delle tre tavolette i Nobili o Magnifici di Ventimiglia potevano continuare a gestire l’Abbondanza come cosa propria.
All’apparente democrazia dei nuovi capitoli “dicevano di no” gli intoppi della burocrazia elefantesca e la possibilità di tenere delle riunioni affrettate accusando il maltempo (anche quando ai villani fosse possibile raggiungere per tempo la città).

E poi… in caso di vero maltempo, quando soprattutto il Nervia per lunghe piogge entrava in piena ed impaludava alla foce o addirittura, per mancanza di buoni argini, giungeva ad allagare un’ampia zona tra Vallecrosia, Camporosso Mare oltre tutta la vasta area nervina [e magari i danni si accentuavano in quanto si ingrossava persino il torrente Crosa o Verbone, quello quasi sempre asciutto che si usava valicare con un guado romano], l’Ufficio intemelio dell’Abbondanza poteva funzionare regolarmente, distribuire in città le sue riserve alimentare mentre gli isolati villani, trattenuti da piogge e paludi, finivano per sentirsi scornati ed ancor più impotenti coi loro due agenti dell’Abbondanza impossibilitati a raggiungere una Ventimiglia dove intanto, però, un Presidente nobile locale li sostituiva nell’Ufficio e faceva gli interessi del suo ceto, non certo quelli delle ville.

Così, specie nei periodi alluvionali e di carestie, la consapevolezza di essere stati gabbati si trasformava in sordo rancore ed i Villani eran sempre più convinti della necessità non di correttivi limitati e di piccole riforme ma di una loro completa emancipazione da Ventimiglia: ma questo lo sapevano anche i più astuti fra i Nobili di Piazza e parecchi di loro “tremavano” nell’attesa di qualche, improrogabile ormai, reazione dei popolani delle Ville, sempre più decisi, preparati e soprattutto finalmente uniti contro l’esosa città.

da Cultura-Barocca

Taggia (IM) nel XVI secolo

Mappa di Vinzoni (XVIII secolo)

Sulla base della CRONACA DI PADRE CALVI Nilo Calvini ha proposto (valendosi pure di altri documenti notarili) una ricostruzione assai interessante dello stato demografico e socio economico di TAGGIA al XVI secolo.
Lo studioso ci informa che nel 1531 TAGGIA contava 611 famiglie (o FUOCHI) e che la sua popolazione ammontava a 1650 abitanti.
Il PARLAMENTO cittadino, necessario come in tutte le circoscrizioni in cui era diviso il DOMINIO DI GENOVA per l’amministrazione locale, risultava composto da 350 uomini di età compresa fra i 17 ed i 70 anni i quali si radunavano, sotto la guida del PODESTA’ o degli ANZIANI.
Dai documenti riguardanti il 1531 si evince che l’intiero valore patrimoniale della località ammontava in circa 2000 lire genovesi (una rovinosa alluvione aveva comunque inciso da poco e negativamente su questa stima).
La popolazione viveva di agricoltura, pastorizia e commercio.
L’attività più vantaggiosa era quella legata alla PRODUZIONE ed al COMMERCIO del VINO che permetteva un giro d’affari annuo di circa 1000 scudi all’anno.
Dopo questa attività veniva la COLTURA DELLA CANAPA che comportava trattative per circa mezzo migliaio di scudi annualmente.
In città si trovavano 12 COMMERCIANTI ma il Calvini, dai documenti, non riesce a leggere criticamente la specificità del loro commercio.
All’alimentazione domestica contribuiva non poco l’ALLEVAMENTO DEL BESTIAME.
L’indagine del Calvini ha permesso di registrare la presenza nella località di 350 capre per il rifornimento del latte e di 12 paia di buoi verisimilmente utilizzati per i lavori di aratura dei campi.
Dall’agricoltura non si ricavavano però grandi produzioni: scarso era il raccolto del frumento e di altri cereali. Secondo i dati raccolti dal Calvini anche l’olivicoltura e la coltivazione dei fichi non andavano oltre una modesta produzione per il consumo locale.
Il Calvini tuttavia precisa nel suo studio (p.24): “Vi era però chi viveva di rendita. Qui i dati sono un po’ oscuri, anche allora vigeva il segreto bancario. Si sa soltanto che 12 famiglie di Taggia possedevano Luoghi, cioè titoli bancari, sul Banco di San Giorgio di Genova, ma non se ne conosce l’importo”.
Sempre il Calvini, di seguito precisa, con la solita attenzione:”Il BILANCIO COMUNALE era forse in attivo; entravano circa 800 lire all’anno per la riscossione delle gabelle cui si aggiungevano lire 500-600 ogni 10 anni per la vendita del legname tagliato nei boschi comunali (COMUNAGLIE). Erano però esentati dal pagamento delle gabelle tutti gli ecclesiastici e i beni religiosi.
L’uscita più gravosa era quella dell’avaria, la tassa che ogni comune versava al governo genovese.
Le altre voci di uscita erano: per il salario del podestà, L. 340; per il cavallero (suo aiutante), L. 50; per i nunzi della corte di giustizia, L. 40; per i massari (ufficiali di varie attività comunali), L. 100; per il medico, L.140, per il maestro di scuola, L. 167: per gli ANZIANI (massima autorità comunale gratuita, ma con un piccolo compenso per alcune spese), L. 7; per gli scrivanoi (segretari del comune e della corte di giustizia), L. 15, per frati e cose pertinenti a chiese, L. 115.
Il numero delle famiglie è confermato nella stessa epoca dal Giustiniani che in una descrizione della Liguria, pubblicata nel 1535, attribuisce a Taggia 600 fuochi, come pure abbondante produzione del vino…
Anche un secolo dopo il numero dei fuochi appare invariato: il
Sacro e Vago Giardinello scritto verso il 1640 attribuisce a Taggia 556 fuochi, all’incirca come le fonti precedenti; con sorpresa vediamo però citati 4000 abitanti….

da Cultura-Barocca

La presenza del Banco di San Giorgio nel ponente ligure

Bassorilevo che raffigura San Giorgio, simbolo del Banco, in lotta contro il drago, collocato in Ventimiglia (IM)

GENOVA, indebitatasi dopo tanti CONFLITTI DI POTERE col BANCO DI SAN GIORGIO, onde riacquistare indipendenza dal Regno di Francia,per saldo gli concesse, con quella di altri territori (come per esempio la VALLE ARROSCIA), la lucrosa AMMINISTRAZIONE del CAPITANATO INTEMELIO (che durò per il periodo corrente dal 1514 al 1562): per una trattazione esaustive vedi anche le pagine importanti dedicate a questo periodo di storia intemelia da G. De Moro.

I Protettori o “Supremi Amministratori” del Banco non ebbero gran cura di un territorio che politicamente era di Genova e che a Genova sarebbe ritornato.
Peggiorarono così i rapporti fra Ventimiglia e Ville: la città, per le “convenzioni”, poteva aumentare la pressione fiscale a danno delle dipendenze. Essa e le “ville” oltre che a costituire un “CAPITANATO” di Genova, erano una sola cosa dal lato giuridico-fiscale: ma il Parlamento intemelio, che deliberava sull’ amministrazione coi due terzi dei voti disponibili spettandone solo uno ai “villani”, cercava, con questa maggioranza, di privilegiare le esigenze di città (i voti erano controllati da nobiltà locale, clero e molti asserviti e clienti).

Pur ammettendo i limiti congeniti dell’amministrazione che il Banco di San Giorgio fece del Ponente Ligure, bisogna tuttavia riconoscere che l’epoca in cui i Protettori di S. Giorgio amministrarono l’agro ligure occidentale fu difficile e complessa sia per ragioni interne allo Stato genovese che, soprattutto, per la gravissima situazione politica continentale.
Esplosa nel 1521 la guerra franco-imperiale, che era poi una guerra di supremazia europea tra Francesco I di Francia e Carlo V re di Spagna e Imperatore di Germania, Genova scelse un prudente assoggettamento agli Spagnoli.
Fu in questo momento che sulla scena della grande storia irruppe ANDREA DORIA già ambizioso ammiraglio al servizio della Francia che, in seguito all’ascesa della famiglia rivale degli Adorno, si vide costretto ad abbandonare Genova per trovar rifugio a Monaco.
Una versione storica che rifugge dall’agiografia del “Padre della Patria” con cui si è spesso delineato il Doria, è stata prudentemente ma con intelligenza portata avanti già da Enzo Bernardini in un suo bel libro (pp.73 – 74).
Per giudizio, non privo di motivazioni di questo storico, ANDREA DORIA sarebbe addirittura stato alla base del crimine con cui BARTOLOMEO DORIA Signore di Dolceacqua avrebbe assassinato Luciano Grimaldi.
Bartolomeo Doria non sarebbe stato altro che l’esecutore di un piano ordito da Andrea per impossessarsi di Monaco dopo averne soppresso il reggente.
Come è noto il tentativo andò a vuoto per il risoluto intervento di AGOSTINO GRIMALDI che occupò Dolceacqua mettendo in fuga Bartolomeo Doria. Il Bernardini costruisce a questo punto un condivisibile teorema di coinvolgimenti di Andrea Doria mettendo in evidenza il suo operato dopo la vittoriosa impresa di Agostino Grimaldi.
L’ammiraglio genovese, forse per un patto già stretto con Bartolomeo Doria, uscì infatti allo scoperto più di quanto convenisse ad un personaggio del suo rango.
Per ripristinare il casato dei Doria di Dolceacqua non si astenne infatti dal bombardare Monaco e quindi di occupare militarmente Dolceacqua in modo da far poi presentare da Bartolomeo Doria, da lui sempre protetto, un atto di vassallaggio al duca di Savoia (1524), atto che finì per concedergli l’impunità dal crimine perpetrato.
Analizzando lo scorrere degli eventi non si può non concordare con l’assunto del Bernardini, pur facendo notare che col suo atteggiamento ambiguo ANDREA DORIA, cui in epoca di una riscoperta romantica dell’Italia furono irragionevolmente attribuiti i panni del “patriota”, era in effetti un figlio ambizioso del suo tempo, sempre sospeso sul labirinto di quegli intrighi e di quelle bassezze (anche costruite su un raffinato esercizio della CRIMINALITA’), che per se stessi a volte erano necessaria onde sostenere grandi e impreviste fortune.
In effetti la mutevolezza e la ricerca dell’utile politico (sia considerando il guicciardiniano “particulare” che la “realtà effettuale” del Machiavelli) caratterizzarono molte azioni del condottiero di Genova che senza dubbio aveva una chiara percezione dei grandi eventi politici
Fondamentale per esempio, dopo i servigi prestati per Francesco I, fu il suo passaggio alla Spagna di Carlo V che rispondeva sostanzialmente a quel programma politico che lo avrebbe portato ad esercitare il controllo sulla Repubblica pur senza mai essere eletto Doge.

Prescindendo comunque dalle ombre e dagli indubbi bagliori che avvolgono la figura del Doria, resta comunque fuori di discussione che a fronte di simili fatti dettati dalla politica mondiale il PONENTE LIGURE era sostanzialmente indifeso: e per esempio il SACCO DI VENTIMIGLIA perpetrato nel 1526 dal Connestabile di Borbone (che in effetti poco a che fare avrebbe avuto con questa città dovendosi recare a Genova per soffocare una sommossa contro il ducato degli Adorno) fu apertamente condotto non tanto contro la città di frontiera quanto piuttosto contro i partigiani di Andrea Doria (e quindi contro la fazione filospagnola) che in Ventimiglia erano numerosi (vedi: Storia della Magnifica Comunità degli Otto Luoghi, p. 171).
Il fatto che gli EVENTI DEL LUNGO CONFLITTO conflitto fecero passare per Ventimiglia e per l’estremo ponente ligure Carlo III di Savoia (in una data però imprecisabile tra il 1522 ed il 1588), Papa Paolo III Farnese (Luglio 1538) e in particolare CARLO V nel 1536 e quindi suo figlio e successore Filippo II nel 1548 induce a credere che il DOMINIO OCCIDENTALE DI GENOVA finì per essere coinvolto in grandi trasformazioni e soprattutto condizionato dalla presenza di forze ed eserciti contro cui, ad onor del vero, la politica dei Protettori del Banco di S.Giorgio di invitare le popolazioni alla sopportazione, proponendo dei risarcimenti che più volte non mancarono di arrivare, fu forse nel momento la sola applicabile e in grado di offrire una minima salvaguardia.

da Cultura-Barocca

La Chiesa di San Giorgio a Dolceacqua (IM)

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Nel XIII sec. la chiesa romanica in Dolceacqua di S. GIORGIO era officiata da un collegio di Canonici, retta da un capitolo collegiale (si trattava quindi di una chiesa collegiata) che nelle chiese non cattedrali esercitava il servizio divino. Presso l’Arch. di Stato di Genova (notai ignoti, filza IV) secondo un documento del 28-IX-1296 il canonico Jacopo Manfredo “coadiutore” si dichiarava unico reggente di S.Giorgio per la morte di Ottone “presbitero” (ecclesiastico del secondo grado gerarchico, fra diacono e vescovo, dell’ordine cattolico) e “preposito” (in senso generico “superiore di una comunità” ed in senso stretto “priore claustrale di una abbazia benedettina”). Il canonico supplicava Arghisius abate di S.Siro in Genova, affinché gli inviasse il ” religioso e onesto frate Damiano” come “preposito”.
Il fenomeno di S.Giorgio riflette un processo spirituale dell’Italia del Centro-Nord: l’esperienza canonicale, tipica di sacerdoti preposti all’ ufficiatura di una chiesa ed impegnati nella vita comunitaria, per quanto poliedrica nelle forme, aveva acquisito sempre maggior credito a partire dall’XI secolo. Questo movimento ebbe diffusione nel settentrione peninsulare perché in tale area nell’istituto plebano, a differenza del Sud, aveva persistito una vita comunitaria del clero in rapporto agli insediamenti rurali circostanti: dopo il Mille la chiesa plebana si organizzò secondo le regole della vita canonicale costituendo un Capitolo, cioè un consesso di sacerdoti il cui capo mutò rapidamente la titolatura originaria di archipresibiter in quella di prepositus o di prior.
Dal XII al XIII sec. gli Ordini di canonici regolari, unificati secondo la Regola di S.Agostino, si segnalarono nell’assistenza ospedaliera (si formarono i primi Ordini ospedalieri, staccati dai Capitoli ma a questi ancora assimilati per vari aspetti).

Nel XVII sec. P. Gioffredo (DISEGNO DI GIOVANNI TOMMASO BORGONIO IN THEATRUM SABAUDIAE) descrivendo Dolceacqua nel Theatrum Sabaudiae rappresentò S. Giorgio con un’errata visione prospettica: visualizzando Dolceacqua da un sito di Sud-Ovest superiore in altura al Convento egli alterò la chiave ottica posizionando S.Giorgio in linea col lato meridionale delle mura inferiori del castro.
La chiesa fu descritta dopo le modificazioni seicentesche: il fronte romanico, oggi restaurato, era ricoperto ed intonacato lasciando visibile una monofora ed il campanile era stato “fasciato” con una calotta barocca (a lato si vede nella carta la canonica, già sede dell’Ospizio canonicale e soppressa dopo la trasformazione di S. Giorgio in chiesa cimiteriale).
Il Gioffredo evidenziò il doppio percorso che dalla chiesa di S. Giorgio portava nel greto del Nervia e a un guado a pedate [la cui “lettura critica”, oltre che nell’utile sublimazione monocromatica informatizzata, qui si propone anche nell’originale a colori del Gioffredo] al di là del quale si giungeva alla torre di guardia nella località dei Praelli [il ponte monumentale pseudoromanico ma tardorinascimentale serviva solo per passeggeri portando più che sulla via di transito al Belvedere nel “giardino rinascimentale” dei Doria, la cui realizzazione si può rimandare ai miglioramenti architettonici fatti dalla Signoria fra XV e XVI sec. quando avvennero le ristrutturazioni di Castello e Camminata(“Loggia o Corridoio”)].

In quel tempo S. Giorgio non era più parrocchiale: dal 1468 Paolo di Soncino, canonico di S.Stefano di Marliano e Vicario generale del vescovo de Robiis raccolse infatti le decime degli uomini di Gorbio e S.Agnes nella Prepositura o Parrocchiale di S.Antonio in Dolceacqua=Storia del Marchesato…cit., p.87 e nota 1).

S. Giorgio aveva costituito per tutta la vallata una chiesa davvero importante, un nodo di riferimento spirituale: nel Necrologio della Cattedrale di Ventimiglia si rammenta la morte, al 23-V-1346, di un presibterus Obertus Dulcisaqua prepositus vigintimiliensis canonicus = il 22-IX-1902 il Vescovo intemelio Ambrogio Daffra, edotto di queste scoperte su questa antichissima chiesa di Dolceacqua volle riportar la vetusta Parrocchiale al posto che le competeva, di collegiata retta da due canonici.
Il prelato precisò nel suo rescritto che da sempre la tradizione popolare aveva sostenuto questa condizione ecclesiale ma che per le tante guerre combattute in val Nervia se ne era perso ricordo nei documenti della Diocesi sicchè la chiesa di S. Giorgio privata dei suoi beni temporali aveva preso a languire.
E’ interessante quanto venne fatto scrivere dal Daffra:”in verità i templi dei pagani dal rito cristiano all’epoca della chiesa primigenia venivano aperti alla fede in Dio od anche sulle loro rovine vi si costruivano chiese novelle sì che la Sede Romana conserva l’usanza di nominare Vescovi su sedi antiche di cui non sopravvive che il nome”: l’Episcopo faceva riferimento alla storica abitudine ecclesiastica di riconsacrare i luoghi sacrali del paganesimo, innestando il culto in Cristo sulle vecchie religioni o ristrutturando in chiese templi diruti. Lo stesso suo riferimento alla convenzione della Sede Apostolica di nominar Vescovi in sedi ormai insignificanti seppur celebri nella Romanità o nel Medioevo accenna all’idea mai teoricamente esplicitata ma di fatto concretizzata dall’apostolato romano di quella sovrapposizione dei culti su siti storici cui si fa spesso riferimento nella presente indagine).
Da un precedente atto del notaio di Amandolesio si ricava che nel 1262 fu “preposito” di S.Giorgio tal Bonipar Donnavilla: il 27 maggio 1263 erano convenuti presso la sua chiesa Guglielmo Praello, Guglielmo medicus, Oberto Cassino ed Enrico Berno di Dolceacqua, procuratori degli uomini del borgo, onde dare procura legale a Rolando Advocato e Lanfranchino pignolo contro il capo ghibellino Fulcone Curlo.
La chiesa di S.Giorgio era quindi già vecchia nel Duecento e svolgeva funzioni importanti, anche sotto il profilo pubblico: il “preposito” di S.Giorgio risultava personaggio di rilievo sociopolitico superiore a quello di qualsiasi altro religioso della vallata.
Se i Francescani andavano oramai acquisendo credibilità fra le plebi rurali che li convocavano come giudici imparziali (furono arbitri l’1-III-1230 di una controversia fra Apricale e Pigna sui diritti confinari nell’asse viaria montana di Ansa e Marcola) le autorità continuavano a valersi di Benedettini e Canonici che godevano gran credito presso la Curia Romana e tutte le Corti (più o meno direttamente si deduce ciò dal fatto che solo il “preposito” di S.Giorgio Jacopo era a fianco del console di Dolceacqua Carlevario allorché il 16-X-1242 la loro comunità, nel castello di Portiloria alla foce del Nervia, aveva stretto un vincolo di alleanza col conte intemelio Emanuele contro la Repubblica di Genova).

da Cultura-Barocca