Perinaldo (IM)

Dal 1288 Perinaldo (IM) ed il suo strategico territorio entrano a far parte della Signoria dei Doria di Dolceacqua.
Secondo i Diritti dei Doria del XVI sec. vengono ribadite per il borgo le identiche rubriche degli altri paesi colla variante del VI e VII cap. ove si stabilisce che i residenti debbano versare alla Purificazione in Febbraio 75 lire genovesi al Signore, che a Natale i bandioti debbano al Signore duo motones novellarii pingues…una crupa ovis optimae…e in festo Paschatis duo capreoli vel florenum unum pro libito voluntatis domini.

In Perinaldo, nel luogo detto la Loneta, i Doria possedevano poi due frantoi, in quello inferiore vi erano quattro botti grandi, due vasi lignei, di cui uno molto grande per contenere le olive e l’altro per riporvi l’olio, un’Hydria assai capace e quattro situlae.
Nel mulino superiore stavano invece tre botti grandi, tre piccoli tini, quattro situlae, una tineta, 34 sportulae, 2 corbulae, 2 anelli di ferro, ed uno strumento per aspirare l’olio d’oliva.
La rubrica 99 degli Jura o DIRITTI DEI DORIA menziona inoltre che a riguardo “Dei prati” il Signore di Dolceacqua ne aveva tre all’Alpicella (Arpexella), un altro sito al luogo “screpin” ed un altro ancora a “campi”.

Dal 1559 dopo la pace di Cateau Cambresis si succedono alterne vicende per la Signoria dei Doria in bilico nelle alleanze con la Repubblica di Genova od il Piemonte.

I rapporti fra i Doria ed i Savoia si guastano nel XVII sec. e nel 1625, durante la guerra tra Genova e i Savoia, la Signoria di Dolceacqua si allea con la Serenissima Repubblica di Genova.

Per reazione le truppe sabaude invadono i territori dei Doria: questi potranno rientrare poi in possesso del loro Dominio solo dal 1652 dopo aver prestato atto di vassallaggio ai Savoia ed aver visto trasformare l’antica Signoria in Marchesato, che da tal data entra del tutto nell’orbita politica piemontese.

Nel 1672, sorto un altro conflitto dei Savoia con Genova, il Marchesato viene invaso dalle forze genovesi ed il borgo di Perinaldo viene saccheggiato sì che la sua fortezza, posta sullo sperone ovest dell’altura a controllo delle vie di crinale, viene del tutto demolita (oggi ne sopravvive solo il nome nella “Piazza Castello”.

Da questo momento Perinaldo non patisce più altri danni ma entra nella crisi socio-economica dell’intero Marchesato, che entra in decadenza irreversibile dopo la distruzione del Castello di Dolceacqua durante la Guerra di Successione al Trono imperiale del XVIII secolo.
Esplosa la Rivoluzione francese ed affermatasi la stella di Napoleone, col trattato di Presburgo (28-XII-1806) Repubblica di Genova, Piemonte e tutti gli staterelli vicini diventano parte stessa dell’Impero francese.

Dopo la sconfitta di Napoleone (1814-’15) ed in seguito all'”Atto finale” del Congresso di Vienna (9-VI-1815) il Piemonte si trasforma in Regno di Sardegna, annettendosi il Dominio della soppressa Repubblica di Genova.

Non più contesa fra potenti rivali e non essendo più fortilizio sito su ambigui confini, Perinaldo prende a fiorire.

Da questo momento la sua storia si identifica con quella del Regno Sardo e, dal 1861, del Regno d’Italia.

Perinaldo, che gode di buon clima ed è immerso in un ambiente naturale molto bello, ha discrete risorse architettoniche.

Oltre alla sopravvivenza, ai lati est ed ovest di Piazza Castello, di due volte con copertura a botte (da collegare con le antiche fortificazioni) il paese si qualifica per la parrocchiale di San Nicola (o più precisamente della COLLEGIATA DI SAN NICOLA), la cui costruzione risale al 1489 anche se durante il ‘600 la chiesa venne modificata in linea col gusto barocco.
Nel 1887 il terremoto che demolisce Bussana e seppellisce centinaia di vittime nella parrocchiale di Baiardo, arreca gravi danni anche alla parrocchiale di Perimaldo, rovinandone l’abside, la facciata ed il campanile.
Per questo risultano oggi assai interessanti i restauri effettuati tra il 1966 ed il 1969 in forza dei quali l’antica chiesa si può oggi ammirare nella sua originale linea quattrocentesca, con l’armoniosa successione di belle colonne sormontate da capitelli cubiformi.

Tra il patrimonio della chiesa parrocchiale è da ascrivere una tela, denominata comunemente Delle Anime, datata della II metà del ‘600 ed attribuita alla scuola del Guercino (Giovanni Francesco Barbieri, da Cento).

Perinaldo (IM) – Il Castello Maraldi

Ancora dignitoso compare l’edificio del Castello Maraldi dimora, tra XVII e XVIII sec., degli astronomi e cartografi Cassini, Maraldi e Borgogno.

Il SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA DELLA VISITAZIONE sorge non lontano dalla storica STRADA DEL VERBONE su di un poggio che guarda a nord verso il paese.
Si tratta di una CHIESA CAMPESTRE eretta nel 1600 dagli abitanti di Perinaldo: sarebbe stata collocata in tale posizione, in linea del meridiano ligure, su proposta di GIANDOMENICO CASSINI.
Dopo un lungo abbandono il SANTUARIO fu restaurato per volontà popolare e riconsegnato alla pratica della fede il 22-8-1965 come si apprende da una iscrizione sulla facciata: sull’ingresso in pietra arenaria domina una STATUA DELLA VERGINE mentre sopra l’altare è stata posta una tela raffigurante la MADONNA DELLA MISERICORDIA.
Nel dialetto di Perinaldo la CHIESA è detta MADONA RU POGIU RU REI cioè “Madonna del Poggio dei Rei”: secondo la tradizione tale nome le sarebbe stato conferito in quanto, secondo i canoni del DIRITTO INTERMEDIO, gli individui CONDANNATI A PENE CORPORALI dovevano procedere in una sorta di corteo tutto intorno il SANTUARIO iindossando ABITI DA PENITENTI, PORTANDO UN PARTICOLARE CAPPELLO SE NON UN CAPPUCCIO.
La tradizione non è affatto priva di fondamento.
Non era per nulla raro nel passato il caso di REI (come meglio si indicavano le persone giudicate COLPEVOLI DI REATI, per motivi religiosi o civili, costretti a compiere dei percorsi obbligati in vari luoghi pubblici: ciò lo si ricava dalle norme di molti STATUTI CRIMINALI E CIVILI e, su scala più estesa dal DIRITTO PENALE E CIVILE DEGLI STATI.
La pena più temuta, secondo gli STATUTI DI GENOVA [che son poi simili se non più miti di altri, compresi quelli dei SAVOIA] era di PROCEDERE TRAINATI DA UN ANIMALE SIN AL LUOGO DELLA PENA ed in particolare, fra vari tipi di CRIMINALI [dannati alla pena di caminare (spesso a stento dopo le TORTURE RICEVUTE PER OTTENERE UNA QUALCHE CONFESSIONE) sotto lo sguardo inflessibile del BOIA E DEI SUOI SERVENTI sin a determinati luoghi di culto nel presso dei quali essere poi puniti sotto gli occhi di tutti], in particolare molto di frequente comparivano i LADRI.

da Cultura-Barocca

Piemonte e ponente ligure

Airole (IM): uno scorcio

L’influenza pedemontana sulla Liguria e specialmente su quell’area strategica di grande importanza che da sempre fu l’estremo Ponente Ligure risale a tempi remoti e – senza poter elencare tutte le circostanze – si può già citare a titolo proemiale l’influsso che le grandi case monastiche pedemontane ebbero in forza della loro espansione e su un tragitto di pellegrinaggi della fede dal Cenisio al mare di Ventimiglia (IM) dopo la sconfitta (alla fine del X secolo) dei Saraceni del Frassineto.

Le ragioni fideistiche si coniugarono presto con motivazioni temporali e commerciali legate al controllo di tratti importanti per le diramazioni delle vie dell’allume, delle spezie e soprattutto del sale.

Tra gli obbiettivi pedemontani e quindi sabaudi rientrava il controllo della via del Nervia, attesa l’asperrima Valle del Roia al cui terminale dopo l’esperienza certosina fungeva da guardia – con altre località – il centro di Airole di cui Ventimiglia si definiva “Consignora”.

Lo Stato Sabaudo si trovò con il tempo nella condizione di controllare la base navale di Nizza e quindi quello che sarebbe divenuto il Principato di Oneglia. Più lenta e graduale fu la penetrazione sabauda verso il mare di Ventimiglia di maniera che un punto cardine può esser giudicata l’assimilazione di Pigna di rimpetto alla quale stava la forte, genovese base di Castelfranco poi Castelvittorio (IM).

E’ nel XVI secolo che in Val Nervia gli equilibri assunsero una piega che si rivelò – specie col tempo – favorevole allo Stato Sabaudo. Lo scontro successivo all’omicidio (1523) del Signore di Monaco, perpetrato da Bartolomeo Doria dell’omonima Signoria di Dolceacqua e Val Nervia, si evolse con la reazione di Agostino Grimaldi, che conquistò il territorio del nemico al punto che, data la generale condanna dei vari Potentati, al fuggiasco Bartolomeo Doria non rimase altra soluzione che cedere i suoi possessi con atto di vassallaggio ai Savoia per esserne contesualmente investito. Tramite simile evento, nonostante la sostanziale autonomia della Signoria dei Doria, il loro possedimento, di indubbia valenza strategica, divenne un punto chiave nella valle per i rapporti tra la Repubblica di Genova e lo Stato Sabaudo che, dato l’atto di vassallaggio dei Doria, poteva comunque partire da una posizione vantaggiosa.

Ed è proprio nel XVII secolo che prendono corpo quei conflitti aperti tra Genova ed il Ducato Sabaudo che coinvolgono espressamente il Ponente di Liguria.
Il primo conflitto è databile al 1625. Le difficoltà di Genova non sono solo di rimpetto ad un nemico oggettivamente più interno, ma nel contesto del Ponente stesso già contrastato da varie problematiche, tra cui lo stato di perenne tensione tra ville e città nel contesto del Capitanato di Ventimiglia, aggravato da una rivolta popolare avverso la nobiltà locale, bensì anche l’inerzia di Genova e dei suoi comandanti militari a fronte di un nemico vincente. Ed è in siffatto clima che si predispone la congiura filosabauda che prende nome da Giulio Cesare Vachero.

Il secondo conflitto del 1672 è del pari connesso alle mire espansionisiche sabaude ed ancora ad una congiura antigenovese, capeggiata da Raffaello della Torre al fine di organizzare una rivolta in grado di abbattere il governo repubblicano genovese o quantomeno creare nel Dominio ligure un disordine bastante a poter conquistare l’importante piazza di Savona.
I provvedimenti presi da Genova per rinforzare Savona concorrono a capovolgere la situazione sino al punto che le forze sabaude entrano in aperta crisi e necessitano di un pronto intervento di ulteriori contingenti per riconquistare la perduta base di Oneglia.
A questo momento interviene la diplomazia ma nel suo contesto a testimonianza degli intrighi esistenti in seno alla Repubblica emerge anche l’ambigua posizione del pubblicista genovese Francesco Fulvio Frugoni – assunto per attestare le responsabilità dello Stato Sabaudo connivente con il della Torre – sul cui ondivago comportamento filosabaudo alcune cose si sanno anche in funzione di quattro sue lettere all’Aprosio.

La Savoia continuò più o meno occultamente a covare ambizioni di espansionismo in Liguria. La persistenza di contenziosi, più diplomatici che guerreschi tra Genova e Piemonte Sabaudo in effetti si manifestò sempre, seppur in forme men eclatanti, sui limiti di un contrastato confine. A titolo esemplificativo si può qui citare il caso nell’estremo Ponente dell’antichissimo possedimento monastico di Seborga, detto anche “Feudo della Seborga”, alla fine, nell’ambito di una questione tuttora assai controversa, assimilato dai Savoia – fra le opposizioni genovesi – per acquisto dalla Casa Madre.

La soluzione da parte della Serenissima Repubblica di Genova dei contrasti seicenteschi con il Piemonte Sabaudo sancisce però l’avvento di destini diversi fra le due Potenze (anche se non sempre intercorsero rapporti competitivi. Genova anzi accettò di ospitare la Corte Sabauda che portava con sé la Sindone quando Torino fu sotto assedio durante la “Guerra di Successione al trono di Spagna.

In effetti si stavano oramai aprendo nuovi percorsi al tempo e purtroppo alle guerre con l’insorgere di quei conflitti continentali e non solo destinati a fare del Piemonte una Potenza di rilievo, evolutosi al segno di pianificare l’Unità d’Italia grazie anche ad un’industria bellica avanzata e di rilievo esperita già dal ‘700.
Al contrario si dovette assistere alla graduale relegazione di Genova e del Dominio in un posizione geopoliticamente subordinata e di difficile neutralità, nonostante atti di valore come la rivolta – nominata dal “Balilla”- contro le vessazioni austriache. Del resto nell’ arco temporale in cui si decidono i destini d’Europa, e in parte del Mondo, la Repubblica si trova obbligata a risolvere con dispendio di energie gravi problemi interni come l’annosa questione del conteso Marchesato di Finale, ma anche – tra altre cose – a domare a Sanremo una rivoluzione popolare, duramente piegata con le armi e presupposto dell’erezione di un Forte alla Marina, come si legge qui nel “Manoscritto Borea” che indica anche le truppe scelte per controllare la popolazione della città.

E’ arduo dire se tutte queste difficoltà intestine, senza dubbio centrifughe e destabilizzanti, dell’antichissima e gloriosa Repubblica abbiano condizionato le scelte future in merito al suo destino. Fatto sta che non venne più restaurata – dopo tante illusioni ai tempi della Repubblica Democratica Ligure susseguente alla Rivoluzione Francese e alle gesta napoleoniche per cui caddero gli Stati del Vecchio Regime – quale “secolare libero Stato” – una volta finita l’esperienza napoleonica innovatrice certo ma nemmeno priva di responsabilità, a riguardo della gestione di quella che fu una Grande e Possente Repubblica – ma, piuttosto, in forza dei deliberati del Congresso di Vienna fu, tra lo sgomento di molti, assimilata quale possedimento del Regno di Savoia e quindi organizzata entro la “Grande Liguria delle Otto Province”, destinata abbastanza presto ad essere ridimensionata per la cessione di Nizza (con la Savoia) allo scopo di ottenere a fianco di Vittorio Emanuele II l’intervento di Napoleone III Imperatore dei Francesi nella II Guerra di Indipendenza presupposto basilare per l’Unità d’Italia.

da Cultura-Barocca

Sull’antica Cartiera di Isolabona (IM)

La Signoria dei Doria di Dolceacqua (IM) sulla base degli Jura o diritti di siffatta Signoria Bannale deteneva  ad Isolabona (IM) una CARTIERA o aedificium papyri, già affidata al maestro Bartolomeo Villano.

Non era una novità nel genovesato e soprattutto nell’area dell’attuale località di Voltri sorgevano numerose ed attrezzate cartiere, a testimonianza di un’attività manifatturiera di rilievo nella Serenissima Repubblica, anche praticata da altre nobili famiglie.

La Cartiera, che sorgeva a valle del borgo di Isolabona della Signoria di Dolceacqua, fu eretta tra XIV e XV secolo.

La Cartiera della Val Nervia non è altro comunque che la conferma dell’estensione del fenomeno dell’industria della carta proprio del Genovesato.

A riguardo di questa cartiera di Isolabona nel 1580 Stefano Doria, per testamento, lasciò al parente, conte Geronimo Doria di Cirié, “centocinquanta balle di papiri fatti nell’edificio di Dolceacqua“.

Il Briquet (Les papiers des archives des Genes et leurs filigranes in “Atti della Società Ligure di Storia Patria”, 1888) individuò carte del XV sec. di una “Cartiera di Isolabona”, in cui vi era la filigrana dei fabbricanti genovesi, il guanto sormontato da una stella.

Analizzare la Cartiera non sarebbe solo un modo per ripensare al Castello di Dolceacqua ma a ripensarlo in connessione con almeno tre sue strutture importanti dal lato scientifico di cui è possibile scrivere ancora parecchio. Il giardino rinascimentale svolgente ruolo di orto botanico. L’ex Biblioteca del Castello che non doveva esser affatto modesta, nonostante le innumerevoli peripezie, anche per i rari manoscritti che custodiva. E finalmente quella che potrebbe modernamente definirsi Farmacia/Gabinetto Medico del Castello; anche se occorre sempre rammentare che come tutti nella loro epoca, e specie quelli che se lo potevano permettere, in questo “Gabinetto Medico” accanto a terapie strutturate secondo i principi scientifici tuttora in auge e coerenti con le attuali postulazioni della scienza o medicina allopatica, i Doria si avvalevano anche di medicine simpatetiche quali gli “essudati delle Reliquie” e parimenti dei “prodotti alchemici presunti attivatori del magnetismo universale: dall’unguento armario alla polvere simpatetica”.

Presso la Biblioteca di Ventimiglia, Fondo Bono, ms. 1 (anni 1579-80) si conservano lettere di Stefano Doria, redatte sul supporto cartaceo di questa cartiera.

I ruderi dell’edificio evidenziano una modifica italiana alla STRUMENTAZIONE ARABA di queste aziende, l’innovazione del maglio a testa di pietra azionato da ruota idraulica.

L’analisi di qualche campione di carta di questa CARTIERA di ISOLABONA, trovato in area sabauda, permette peraltro di riconoscere la metodica di collatura con gelatina animale onde conferire alla carta doti di conservabilità (documento vergato su entrambi i lati del 1436 della Certosa di Pesio= Arch. Privato).
Per la lavorazione si usavano stracci di lino e quindi di canapa.

Da lettere dei ventimigliesi Battaglino Orengo (1509) ed Antonio Orengo (1521) si evince che tal carta era commercializzata su l’arco ligure e per il Piemonte.

da Cultura-Barocca

Dai “Diritti dei Doria” del 1523

La Signoria Doria nel 1523 possedeva in Apricale una “terra aggregata” in località “gunter”, parte di un campo “in luogo li Rossi”, una terra aggregata nella “fascia la grassa”, una pezza di terra aggregata a la canavayra “(il cui toponimo rimanda ad una coltura di canapa), due gerbidi a “la croixe” ed uno in zona “lantigho”.
I Doria avevano poi terreni coltivati in luogo “lo bral”, due castagneti nelle località “lo sangue” e a “le conzynaire”, quattro altri campi, uno a “lo campeto”, due a “fori”.
Altri beni immobili eran costituiti da 4 castagneti (località “S. Giovanni, Ortomoro, faxia de carletto sive giraudo, faxia curla“).
Oltre ad un campo nel luogo la grassa e terreni presso S. Pietro, il Signore esercitava diritti sul contratto per cui Dioniso Fiore era conduttore della terra de lo chioto de portaver.
Gli spettavano altresì, in Apricale, una stalla o casa , già concessa alla locale Confraternita per ricompensa di alcuni danni materiali subiti.
La Signoria deteneva poi tre frantoi di cui uno detto “l’edificio soprano che ha la sua ruota, latrina e mola con tre botti, una tina con un solo cerchio, due grandi tini per l’ olio, uno più piccolo per trasportare l’ olio” (il secondo era detto edificio mezzano, l’ultimo edificio nuovo).

Dai “Diritti dei Doria” del 1523 si ricavano, in latino qui tradotto, le seguenti rubriche:

“…APRICALE e ISOLABONA
30- La Comunità di Apricale ed Isolabona deve (quanto segue) al Reverendissimo Signore Agostino de Grimaldi Vescovo di Grasse, di Monaco, Dolceacqua e dei restanti luoghi:
31- Dapprima alla festa di S. Lucia deve versare a titolo di omaggio la somma di 45 lire di moneta corrente.
32- Alla Natività di Nostro Signore Gesù Cristo deve dare due montoni giovani.
33- In detta festa i consoli del posto devono donare un allevato di carne ovina.
34- Inoltre detti consoli sian tenuti a versare al reverendissimo Signore 150 uova a titolo di tassazione sugli introiti della loro carica in occasione della festa della Purificazione della Beata Maria, che vien celebrata al 2 od al 7 di Febbraio.
APRICALE e ISOLA
35- Alla Festa di Pasqua le suddette Comunità versino al nominato Signore due capretti.
36- I consoli in detta festività diano pure un allevato di capra.
37- Detti consoli sian tenuti a dare al Signore la quarta parte delle esazioni pecuniarie di condanne, accuse e pene, su cui si estende la loro autorità, di cui il Signore potrà far remissione ai pentiti od a quanti avran saldata la multa secondo la discrezionalità di siffatti consoli sul doversi quietare, esigere, procedere stabilendosi che la quarta parte delle riscossioni coatte spetti al Signore e che gli venga assegnata per mezzo dei consoli a titolo del loro officio.
38- Il Signore avrà inoltre ogni autorità sulla giurisdizione criminale e penale, come si stabilirà con opportuni capitoli e convenzioni.
39- I consoli dei luoghi non possono nè debbono adunare il Parlamento se non per consenso del Signore o di chi per lui tiene il luogo se non fino alla quantità ed al numero del Consiglio di detto luogo sicché costituiscano il consiglio tanti uomini quanti sono i Consiglieri.
40- Altresì predetto Signore alla festa della Purificazione elegga nel luogo di Apricale quattro consoli che abitino colle famiglie nel sito di Apricale e due residenti nel luogo dell’Isola i quali debbano reggere il diritto in siffatti luoghi.
41- Il Reverendissimo Signore ha inoltre la giurisdizione dei mulini ad Apricale ed Isola alla sedicesima ( o sedicesima parte del macinato da pagarsi come decima): tiene in affitto questi mulini, per centocinquanta scudi all’anno, tal Giacomo Cane.
42- Il Signore possiede la Bandita detta Oltrenervia coll’erbatico [tassa da pagare per il pascolo] di buoi e capre, e precisamente dei buoi (pagando) dal numero di tre in su per la ragione di due soldi e mezzo per ogni bue e da due capre in su (pagando) per la ragione di sedici denari a capra a prescindendo dalle prime due. Da dieci capre in su si paghi per detta ragione senza l’esclusione di alcun animale. Non tenendosi bestie in estate poichè come dice la sentenza a riguardo delle bestie da pascolarvi da quindici giorni dopo la festa di S. Michele al I maggio e dal I maggio sin a quindici giorni dopo tal festa, detto erbatico e Bandita spettano alla Comunità come dispone l’atto scritto a sua mano da Luchino Capone, fedefaciente: questa bandita il Signore per quel tempo che è sua ha l’autorità di venderla ogni anno ed a chiunque intenda comprarla, al prezzo convenuto tra questo ed il Signore colle solite servitù. Quelle per cui i compratori sono tenuti a dare al Signore un montone alla festa della Natività e tre forme di formaggio grasso: il prezzo della Bandita vien pagato per metà al giorno del Natale e la restante somma alla fine del mese di aprile, la qual Bandita nell’anno in corso si vendette al prezzo di settantatrè fiorini con le servitù di cui si disse.
43- Il Signore ha inoltre la completa giurisdizione delle acque affinché nessuno edifichi o costruisca mulini o edifici o qualcun altro edificio ad acqua.
44- Il Signore percepisce la dodicesima parte delle olive colle sanse, riservati i diritti delle comunità.
45- Riceve inoltre la decima del vino: precisamente in Apricale un quartino di vino per 20 quartini ed oltre i venti non si paga altro, da dieci a diciannove quartini si paga per dieci, da dieci a cinque si paga per cinque e sotto i cinque sol a rata.
46- La Comunità di Apricale e Isola è tenuta a versare al Signore per le decime del Vescovo venticinque mine, sotto la forma dei due terzi di mistura e un terzo di frumento.
47- Inoltre i pastori di dette bandite di Apricale ed Isola ed i caprari di tali luoghi sian tenuti al pagamento delle decime. I pastori paghino sulla misura di 41 bestie passando verso valle, di cui il nominato Signore ha diritto ai due terzi ed il Rettore della Chiesa al restante, mentre i caprai di detti luoghi di Apricale ed Isola del numero di quaranta capre debbano pagare tre bestie per decime, di cui due al Signore ed una al Rettore per singola sorta [sciorta dial.=gregge], mentre da quaranta in su non debbono versare altro e se il gregge è da quaranta in giù son tenuti per singola sorta.
……………..
55- Nessuna persona accetti lettere monitoriali se non su licenza del Signore o di chi per lui tiene il luogo.
56- Il Signore da chiunque sia riconosciuto spergiuro abbia a titolo di bannalità la somma di sessanta soldi.
57- Lo stesso Signore a riguardo delle bannalità che giungono alla somma di 5 lire abbia e debba avere quattro parti mentre i consoli ne ottengano la quinta parte.
59-Lo stesso reverendissimo Signore nel luogo di Isola annualmente riceva la decima del vino per il reverendissimo Vescovo intemelio, precisamente su dieci metrete ha diritto ad un quartino di vino o mezza metreta, oltre le dieci metrete nulla di più ha diritto di ottenere e nel caso di un quantitativo inferiore alle dieci metrete gli spetta solo un pagamento a rata da uno a dieci.
60- Inoltre il Signore deve al Vescovo suddetto una determinata somma annuale, di cui gli uomini debbono ignorare la consistenza.”.

da Cultura-Barocca

Aurigo (IM)

Fonte: Wikipedia

In età medievale Aurigo (IM), sito a 431 m.s.m., fu sede di un CASTELLO (datato del XII secolo ed oggi parzialmente inglobato nel quattrocentesco PALAZZO DE GUBERNATIS) dei CONTI (ramo Lascaris) di VENTIMIGLIA.
Pervenne quindi ai SAVOIA da cui giunse in feudo ai DORIA nel 1575, seguendo in pratica le vicende di BORGOMARO, capitale del Dominio feudale.
Il paese originario sorse probabilmente più in altura rispetto all’odierno: quasi di sicuro raggruppato intorno all’edificio sacro della romanica CHIESA DI S. ANDREA.
Questa ricostruzione ha indotto alcuni storici a dare una particolare spiegazione del nome del paese.
Il Lamboglia per esempio, sviluppando un confronto con la topografia ed il nome di APRICALE in VALLE DEL NERVIA, ha ipotizzato che AURIGO derivi il nome dalla base APRICUS nel senso di “SOLATIO”: ed indubbiamente osservando la posizione di AURIGO uno spettatore moderno ha l’impressione di osservare davvero un sito esposto nel miglior modo possibile ai raggi del sole e quindi ideale per la vita agreste di relazione e di produzione.
Tuttavia per quanto suggestiva l’ipotesi si scontra con certe norme della linguistica e della toponomastica ligure: infatti sarebbe anomala l’evoluzione del gruppo APR- nel gruppo AVR-.
Siffatta osservazione ha indotto altri studiosi tra cui la glottologa Petracco Sicardi ad ipotizzare -quasi certamente essendo nel giusto- che il moderno AURIGO sia un derivato dal nome di persona germanico AURIGIS e che si sia sviluppato alla maniera di molti altri toponimi di siffatto genere, seguendo la tipologia: CASTRUM AURIGIS>AURIGO.
Questa valutazione sembrerebbe peraltro avvalorata da un confronto storico.
Il paese si è infatti evoluto in un’area di alta importanza strategica laddove i BARBARI hanno lasciato significative tracce (onomastiche, toponomastiche ed insediative) della loro presenza, soprattutto dei tempi in cui qui esercitavano pressione militare e demografica contro il SISTEMA DIFENSIVO in tempi diversi attivato dai BIZANTINI, che per ultimi contesero agli ultimi “Barbari invasori”, i LONGOBARDI, l’accesso definitivo alle terre italiche, come la LIGURIA, non ancora cadute sotto il loro DOMINIO.
Oltre queste congetture AURIGO, come molte altre località non offre segnali peculiari che permettano di inquadrare meglio la sua genesi.
A prescindere dalla chiesa romanica di cui si è detto (e fatta naturalmente eccezione per i reperti del CASTELLO come della sua evoluzione quattrocentesca, cioè il PALAZZO DE GUBERNATIS, gli altri edifici pubblici sono decisamente recenti.
Come la Parrocchiale che risale al XVIII secolo o la Chiesa di S. Paolo.

da Cultura-Barocca

Su Apricale (IM)

In questo borgo [il cui TOPONIMO presenta più difficoltà di interpretazione di quanto si creda] i Doria avevano assimilato beni che erano alla CHIESA DI S.PIETRO ma su cui sussistevano controversie per stabilirne gli autentici diritti. I Signori nel 1523 possedevano in Apricale una “terra aggregata” in località “gunter“, parte di un campo “in luogo li Rossi“, una terra aggregata nella “fascia la grassa“, una pezza di terra aggregata a la canavayra “(il cui toponimo rimanda ad una coltura di canapa), due gerbidi a “la croixe” ed uno in zona “lantigho“.
I Doria avevano poi terreni coltivati in luogo “lo bral“, due castagneti nelle località “lo sangue” e a “le conzynaire“, quattro altri campi, uno a “lo campeto“, due a “fori“.
Altri beni immobili eran costituiti da 4 castagneti (località “S.Giovanni, Ortomoro, faxia de carletto sive giraudo, faxia curla“).
Oltre ad un campo nel luogo la grassa e terreni presso S.Pietro, il Signore esercitava diritti sul contratto per cui Dioniso Fiore era conduttore della terra de lo chioto de portaver.
Gli spettavano altresì, in Apricale, una stalla o casa , già concessa alla locale Confraternita per ricompensa di alcuni danni materiali subiti.
La Signoria deteneva poi tre frantoi di cui uno detto “l’edificio soprano che ha la sua ruota, latrina e mola con tre botti, una tina con un solo cerchio, due grandi tini per l’ olio, uno più piccolo per trasportare l’ olio” (il secondo era detto edificio mezzano, l’ ultimo edificio nuovo).
Dai “Diritti dei Doria” del 1523 si ricavano, in latino qui tradotto, le seguenti rubriche:

“…APRICALE e ISOLABONA
30- La Comunità di Apricale ed Isolabona deve (quanto segue) al Reverendissimo Signore Agostino de Grimaldi Vescovo di Grasse, di Monaco, Dolceacqua e dei restanti luoghi:
31- Dapprima alla festa di S.Lucia deve versare a titolo di omaggio la somma di 45 lire di moneta corrente.
32- Alla Natività di Nostro Signore Gesù Cristo deve dare due montoni giovani.
33- In detta festa i consoli del posto devono donare un allevato di carne ovina.
34- Inoltre detti consoli sian tenuti a versare al reverendissimo Signore 150 uova a titolo di tassazione sugli introiti della loro carica in occasione della festa della Purificazione della Beata Maria, che vien celebrata al 2 od al 7 di Febbraio.
APRICALE e ISOLA
35- Alla Festa di Pasqua le suddette Comunità versino al nominato Signore due capretti.
36- I consoli in detta festività diano pure un allevato di capra.
37- Detti consoli sian tenuti a dare al Signore la quarta parte delle esazioni peuniarie di condanne, accuse e pene, su cui si estende la loro autorità, di cui il Signore potrà far remissione ai pentiti od a quanti avran saldata la multa secondo la discrezionalità di siffatti consoli sul doversi quietare, esigere, procedere stabilendosi che la quarta parte delle riscossioni coatte spetti al Signore e che gli venga assegnata per mezzo dei consoli a titolo del loro officio.
38- Il Signore avrà inoltre ogni autorità sulla giurisdizione criminale e penale, come si stabilirà con opportuni capitoli e convenzioni.
39- I consoli dei luoghi non possono nè debbono adunare il Parlamento se non per consenso del Signore o di chi per lui tiene il luogo se non fino alla quantità ed al numero del Consiglio di detto luogo sicché costituiscano il consiglio tanti uomini quanti sono i Consiglieri.
40- Altresì predetto Signore alla festa della Purificazione elegga nel luogo di Apricale quattro consoli che abitino colle famiglie nel sito di Apricale e due residenti nel luogo dell’Isola i quali debbano reggere il diritto in siffatti luoghi.
41- Il Reverendissimo Signore ha inoltre la giurisdizione dei mulini ad Apricale ed Isola alla sedicesima ( o sedicesima parte del macinato da pagarsi come Decima): tiene in affitto questi mulini, per centocinquanta scudi all’anno, tal Giacomo Cane.
42- Il Signore possiede la Bandita detta Oltrenervia coll’ erbatico (tassa da pagare per il pascolo) di buoi e capre, e precisamente dei buoi (pagando) dal numero di tre in su per la ragione di due soldi e mezzo per ogni bue e da due capre in su (pagando) per la ragione di sedici denari a capra a prescindendo dalle prime due. Da dieci capre in su si paghi per detta ragione senza l’esclusione di alcun animale. Non tenendosi bestie in estate poichè come dice la sentenza a riguardo delle bestie da pascolarvi da quindici giorni dopo la festa di S.Michele al I maggio e dal I maggio sin a quindici giorni dopo tal festa, detto erbatico e Bandita spettano alla Comunità come dispone l’atto scritto a sua mano da Luchino Capone, fedefaciente: questa bandita il Signore per quel tempo che è sua ha l’autorità di venderla ogni anno ed a chiunque intenda comprarla, al prezzo convenuto tra questo ed il Signore colle solite servitù. Quelle per cui i compratori sono tenuti a dare al Signore un montone alla festa della Natività e tre forme di formaggio grasso: il prezzo della Bandita vien pagato per metà al giorno del Natale e la restante somma alla fine del mese di aprile, la qual Bandita nell’anno in corso si vendette al prezzo di settantatrè fiorini con le servitù di cui si disse.
43- Il Signore ha inoltre la completa giurisdizione delle acque affinché nessuno edifichi o costruisca mulini o edifici o qualcun altro edificio ad acqua.
44- Il Signore percepisce la dodicesima parte delle olive colle sanse, riservati i diritti delle comunità.
45- Riceve inoltre la decima del vino: precisamente in Apricale un quartino di vino per 20 quartini ed oltre i venti non si paga altro, da dieci a diciannove quartini si paga per dieci, da dieci a cinque si paga per cinque e sotto i cinque sol a rata.
46- La Comunità di Apricale e Isola è tenuta a versare al Signore per le Decime del Vescovo venticinque mine, sotto la forma dei due terzi di mistura e un terzo di frumento.
47- Inoltre i pastori di dette bandite di Apricale ed Isola ed i caprari di tali luoghi sian tenuti al pagamento delle Decime. I pastori paghino sulla misura di 41 bestie passando verso valle, di cui il nominato Signore ha diritto ai due terzi ed il Rettore della Chiesa al restante, mentre i caprai di detti luoghi di Apricale ed Isola del numero di quaranta capre debbano pagare tre bestie per decime, di cui due al Signore ed una al Rettore per singola sorta (sciorta dial.=gregge), mentre da quaranta in su non debbono versare altro e se il gregge è da quaranta in giù son tenuti per singola sorta.
……………..
55- Nessuna persona accetti lettere monitoriali se non su licenza del Signore o di chi per lui tiene il luogo.
56- Il Signore da chiunque sia riconosciuto spergiuro abbia a titolo di bannalità la somma di sessanta soldi.
57- Lo stesso Signore a riguardo delle bannalità che giungono alla somma di 5 lire abbia e debba avere quattro parti mentre i consoli ne ottengano la quinta parte.
59-Lo stesso reverendissimo Signore nel luogo di Isola annualmente riceva la decima del vino per il reverendissimo Vescovo intemelio, precisamente su dieci metrete ha diritto ad un quartino di vino o mezza metreta, oltre le dieci metrete nulla di più ha diritto di ottenere e nel caso di un quantitativo inferiore alle dieci metrete gli spetta solo un pagamento a rata da uno a dieci.
60- Inoltre il Signore deve al Vescovo suddetto una determinata somma annuale, di cui gli uomini debbono ignorare la consistenza.”.

La PIAZZA MEDIEVALE è il coronamento di questo gioiello di conservazione architettonica.

Non ha invece più molto rilievo il CASTELLO DEI DORIA altamente modificato, arricchito da un giardino pensile, ed ormai trasformato in abitazione civile: il suo degrado fu determinato dall’impresa militare di Agostino Grimaldi che lo devastò nel corso della sua campagna militare contro la casata dei Doria, in particolare dopo che vi si rifugiò Bartolomeo Doria dopo aver assassinato Luciano Grimaldi, fratello proprio di Agostino.

La CHIESA DI S. PIETRO IN ENTO di APRICALE, di cui restano solo delle rovine, sorge in un pianoro, in situazione logistica buona e capace di sostenere un discreto insediamento rurale.
L’edificio, al pari della CHIESA DELL’ASSUNTA, vecchia parrocchiale di CASTELVITTORIO e di tante altre CHIESE DI VAL NERVIA, fu eretto in tempi remoti dai BENEDETTINI.
Resti di colonne protoromaniche suggeriscono l’idea che il complesso religioso abbia subito degli ampliamenti se non una cera e propria riedificazione verso l’XI-XII sec. nel grande programma di recupero ambientale dopo le devastazioni causate dai SARACENI.
Non è ipotesi impossibile sostenere un ampliamento di un modesto, primitivo edificio: un insediamento monastico alquanto antico in questa zona è peraltro suggerito, oltre che dalle ragioni prima esposte, dal fatto che l’organismo religioso si trovava in una zona importante sotto il profilo degli scambi viari: per questa contrada un percorso medievale, tra l’altro, collegava APRICALE con ISOLABONA e quindi con PIGNA, seguendo la linea viaria della riva sinistra del torrente Nervia.
Sull’ipotesi di un insediamento monastico concorre peraltro la sopravvivenza per l’area di un toponimo emblematico quello di u Cunventu grossomodo alla stessa stregua di quanto l’etimologia popolare fece in merito alla chiesa abbaziale di Dolceacqua quella benedettina novaliciense di NOSTRA SIGNORA DELLA MOTA.
Esistono tuttavia alcuni dati sull’edificio e si ricavano dai repertori degli antichi STATUTI DI APRICALE.
L’edificio religioso risulta citato nel 1276 nella rubrica De eundo cum mortuis ad ecclesiam Sancti Petro de Ento (l’obbligo di portarvi i defunti per le esequie è attestato di una persistente importanza religiosa ma anche socio-economica della struttura, cosa che spesso si riscontra in Italia centro settentrionale in rapporto a strutture abbaziali che innervano da tempo antico una contrada).
Sempre in data 1276 un’altra rubrica degli STATUTI, dettante “De ire ad ecclesiam Sancti Petri in suo festo, fa intravedere un’altra sorta di obbligo contratto da una comunità agreste con una comunità di tipo religioso collettivo e preferibilmente monastico.
Le citazioni della chiesa cessano invece completamente dal XIV secolo età in cui mediamenyte il fenomeno del MONACHESIMO ANTICO comincia a risentire di una certa crisi in rapporto allo sviluppo degli Ordini canonicali e dei NUOVI ORDINI REGOLARI: la zona dal pieno ‘300 viene molto più semplicisticamente citata come CAMPUM senza la specificazione de Empto o de Ento precedentemente usata.

La parrocchiale storica ed antica di APRICALE fu la CHIESA DI S.MARIA IN ALBA.

IMPORTANZA DEGLI “STATUTI DI APRICALE” PER LA CONOSCENZA DELLA CIVILTA’ LIGURE DEL XIII SECOLO

da Cultura-Barocca

Isolabona, nodo strategico viario presso cui si poteva deviare continuando per la Valle del Nervia

Regione Bunda, verso Pigna

Insulae (ISOLE) di materiale alluvionale costituivano ripari per imbarcazioni e attracchi per commercializzare i prodotti vallivi (per questo esse furono spesso al centro di controversie: avevano peraltro rilievo per le colture che vi si praticavano e i mulini costruitivi: ISOLABONA nel Nervia, l’Isola dei Gorreti nel Roia sopravvissute ad oggi son prova dei depositi stabili, destinati a grande evoluzioni).

Ruderi della Cartiera

Il 3-I-1287, nell’atto di annessione amministrativa di ISOLABONA ad Apricale, il toponimo oscillava tra “Insula” e “Insula Bona” (= “Isola Buona” come “Salda, robusta, fidabile, perenne”).
Nei Diritti dei Doria (1523) il paese, alla confluenza fra Nervia e rio Merdanzo, aveva il toponimo “Insula” mentre a livello popolare il nome “Insula Bona” aveva preso il sopravvento (le isole delle foci, per quanto più esposte a cambiamenti geomorfologici, erano comunque di volta in volta punti di riferimento viario o strategico).
I “Diritti della Signoria dei Doria di Dolceacqua del 1523″ sancirono i privilegi nobiliari, tasse, gabelle, proprietà varie e lo jus di pedaggio.
Secondo gli “Jura” i Doria ad Isolabona (oltre che bandite, mulini, frantoi, giurisdizione degli acquedotti e delle fonti) tenevano un CASTELLO, una CARTIERA, una “casa” nel “piano ovvero piazza dell’isola, con un’altra stalla presso detta casa”.
I Doria possedevano poi un “campo”, in località “lo chian de la noxa” affittato a tal Giacomo Cane con un contratto che prevedeva l’esborso annuo in natura di 5 mine e 6 quartari di prodotto agricolo.
La Signoria possedeva “un prato in località S. Giovanni”, un altro in luogo “la morinella” ed “un altro ancora in località Gonteri“.

La vallata verso Apricale

Erano altri beni dei Doria un bosco di castagni “in luogo detto Ortomoro” (il toponimo par rimandare ai tempi dei Mauri, Mori e Saraceni) sulle alture di Isolabona, condotto da Giovanni Roberto e Giovanni Boero, che pei Signori gestivano anche la “fascia curla” (che prendeva nome da un antico possesso della nobile famiglia intemelia dei Curlo) nel territorio di Apricale.
La Signoria, secondo i dettami dei suoi DIRITTI, teneva, sempre nelle vicinanze di Isolabona, un “mulino grande” con la potenzialità di “centoventi mine buon grano ed 80 di grano di mistura“.

Essa aveva anche il possesso di tutti i frantoi, gli “aedifica oleorum“, e gli abitanti del luogo (non solo gli addetti alla olivicoltura) eran tenuti a portar solo lì “a frangere” le olive ed a non valersi di mulini fuori giurisdizione.

La tassa da pagare era della dodicesima porzione del prodotto e della totalità delle “sanse“: l’atto rimanda ad un’antica consuetudine ed è quindi giusto pensare che l’industria olearia, colla sua peculiare giurisdizione, si perdesse nel monopolio dei primi Benedettini.
Questa convinzione trova conforto dal capo successivo dei Diritti laddove viene precisato che i “Signori” avevano “da sempre” la totale “giurisdizione delle acque“: in modo tale che nessuno , tranne naturalmente il Signore, potesse edificare o costruire “molendina” (mulini per granaglie) o qualche altro aedificium” (frantoio)”.

La presenza del Banco di San Giorgio nel ponente ligure

Bassorilevo che raffigura San Giorgio, simbolo del Banco, in lotta contro il drago, collocato in Ventimiglia (IM)

GENOVA, indebitatasi dopo tanti CONFLITTI DI POTERE col BANCO DI SAN GIORGIO, onde riacquistare indipendenza dal Regno di Francia,per saldo gli concesse, con quella di altri territori (come per esempio la VALLE ARROSCIA), la lucrosa AMMINISTRAZIONE del CAPITANATO INTEMELIO (che durò per il periodo corrente dal 1514 al 1562): per una trattazione esaustive vedi anche le pagine importanti dedicate a questo periodo di storia intemelia da G. De Moro.

I Protettori o “Supremi Amministratori” del Banco non ebbero gran cura di un territorio che politicamente era di Genova e che a Genova sarebbe ritornato.
Peggiorarono così i rapporti fra Ventimiglia e Ville: la città, per le “convenzioni”, poteva aumentare la pressione fiscale a danno delle dipendenze. Essa e le “ville” oltre che a costituire un “CAPITANATO” di Genova, erano una sola cosa dal lato giuridico-fiscale: ma il Parlamento intemelio, che deliberava sull’ amministrazione coi due terzi dei voti disponibili spettandone solo uno ai “villani”, cercava, con questa maggioranza, di privilegiare le esigenze di città (i voti erano controllati da nobiltà locale, clero e molti asserviti e clienti).

Pur ammettendo i limiti congeniti dell’amministrazione che il Banco di San Giorgio fece del Ponente Ligure, bisogna tuttavia riconoscere che l’epoca in cui i Protettori di S. Giorgio amministrarono l’agro ligure occidentale fu difficile e complessa sia per ragioni interne allo Stato genovese che, soprattutto, per la gravissima situazione politica continentale.
Esplosa nel 1521 la guerra franco-imperiale, che era poi una guerra di supremazia europea tra Francesco I di Francia e Carlo V re di Spagna e Imperatore di Germania, Genova scelse un prudente assoggettamento agli Spagnoli.
Fu in questo momento che sulla scena della grande storia irruppe ANDREA DORIA già ambizioso ammiraglio al servizio della Francia che, in seguito all’ascesa della famiglia rivale degli Adorno, si vide costretto ad abbandonare Genova per trovar rifugio a Monaco.
Una versione storica che rifugge dall’agiografia del “Padre della Patria” con cui si è spesso delineato il Doria, è stata prudentemente ma con intelligenza portata avanti già da Enzo Bernardini in un suo bel libro (pp.73 – 74).
Per giudizio, non privo di motivazioni di questo storico, ANDREA DORIA sarebbe addirittura stato alla base del crimine con cui BARTOLOMEO DORIA Signore di Dolceacqua avrebbe assassinato Luciano Grimaldi.
Bartolomeo Doria non sarebbe stato altro che l’esecutore di un piano ordito da Andrea per impossessarsi di Monaco dopo averne soppresso il reggente.
Come è noto il tentativo andò a vuoto per il risoluto intervento di AGOSTINO GRIMALDI che occupò Dolceacqua mettendo in fuga Bartolomeo Doria. Il Bernardini costruisce a questo punto un condivisibile teorema di coinvolgimenti di Andrea Doria mettendo in evidenza il suo operato dopo la vittoriosa impresa di Agostino Grimaldi.
L’ammiraglio genovese, forse per un patto già stretto con Bartolomeo Doria, uscì infatti allo scoperto più di quanto convenisse ad un personaggio del suo rango.
Per ripristinare il casato dei Doria di Dolceacqua non si astenne infatti dal bombardare Monaco e quindi di occupare militarmente Dolceacqua in modo da far poi presentare da Bartolomeo Doria, da lui sempre protetto, un atto di vassallaggio al duca di Savoia (1524), atto che finì per concedergli l’impunità dal crimine perpetrato.
Analizzando lo scorrere degli eventi non si può non concordare con l’assunto del Bernardini, pur facendo notare che col suo atteggiamento ambiguo ANDREA DORIA, cui in epoca di una riscoperta romantica dell’Italia furono irragionevolmente attribuiti i panni del “patriota”, era in effetti un figlio ambizioso del suo tempo, sempre sospeso sul labirinto di quegli intrighi e di quelle bassezze (anche costruite su un raffinato esercizio della CRIMINALITA’), che per se stessi a volte erano necessaria onde sostenere grandi e impreviste fortune.
In effetti la mutevolezza e la ricerca dell’utile politico (sia considerando il guicciardiniano “particulare” che la “realtà effettuale” del Machiavelli) caratterizzarono molte azioni del condottiero di Genova che senza dubbio aveva una chiara percezione dei grandi eventi politici
Fondamentale per esempio, dopo i servigi prestati per Francesco I, fu il suo passaggio alla Spagna di Carlo V che rispondeva sostanzialmente a quel programma politico che lo avrebbe portato ad esercitare il controllo sulla Repubblica pur senza mai essere eletto Doge.

Prescindendo comunque dalle ombre e dagli indubbi bagliori che avvolgono la figura del Doria, resta comunque fuori di discussione che a fronte di simili fatti dettati dalla politica mondiale il PONENTE LIGURE era sostanzialmente indifeso: e per esempio il SACCO DI VENTIMIGLIA perpetrato nel 1526 dal Connestabile di Borbone (che in effetti poco a che fare avrebbe avuto con questa città dovendosi recare a Genova per soffocare una sommossa contro il ducato degli Adorno) fu apertamente condotto non tanto contro la città di frontiera quanto piuttosto contro i partigiani di Andrea Doria (e quindi contro la fazione filospagnola) che in Ventimiglia erano numerosi (vedi: Storia della Magnifica Comunità degli Otto Luoghi, p. 171).
Il fatto che gli EVENTI DEL LUNGO CONFLITTO conflitto fecero passare per Ventimiglia e per l’estremo ponente ligure Carlo III di Savoia (in una data però imprecisabile tra il 1522 ed il 1588), Papa Paolo III Farnese (Luglio 1538) e in particolare CARLO V nel 1536 e quindi suo figlio e successore Filippo II nel 1548 induce a credere che il DOMINIO OCCIDENTALE DI GENOVA finì per essere coinvolto in grandi trasformazioni e soprattutto condizionato dalla presenza di forze ed eserciti contro cui, ad onor del vero, la politica dei Protettori del Banco di S.Giorgio di invitare le popolazioni alla sopportazione, proponendo dei risarcimenti che più volte non mancarono di arrivare, fu forse nel momento la sola applicabile e in grado di offrire una minima salvaguardia.

da Cultura-Barocca

Mulattieri, medici ambulanti, mercanti di meraviglie

La Torre Grimaldi di Ventimiglia (IM), posta sull'attuale confine con la Francia, ma già per secoli segno della frontiera occidentale della Serenissima Repubblica di Genova
La Torre Grimaldi di Ventimiglia (IM), posta sull’attuale confine con la Francia, ma già per secoli segno della frontiera occidentale della Serenissima Repubblica di Genova

Ancora ai primi del 1800, sugli ardui tragitti che lentamente sarebbero stati “calcati” dalla via della Cornice, i MULATTIERI dovevano verisimilmente confrontarsi con malattie e pericoli d’animali selvatici o rinselvatichiti (anche linci ed orsi ma soprattutto lupi), oltre con quei tanti criminali (in particolare pirati, banditi, contrabbandieri, briganti da strada), che da metà del XVI secolo il Codice Penale di Genova aveva tentato, con ben limitati successi, di piegare.

Gli unici che, di fatto, senza peculiari necessità osassero avventurarsi assieme ai MULATTIERI, senza scorta e lungo i tormentati percorsi del ponente ligustico (specie fra fine XVI e XVIII secolo), furono quegli avventurieri, genericamente noti con l’epiteto di mercanti di meraviglie tra cui risultavano tanti ciarlatani e “medici di strada”, che ancora nei primi decenni del XIX secolo si industriavano a vendere qual panacea contro ogni male sciroppi, tisane e soprattutto balsamici unguenti.

Tra questa variegata umanità si potevano facilmente individuare quanti vendevano balsami rozzamente fatti derivare da quei medicamenti già esaltati dalla medicina spagirica o spagiria, quali l’unguento armario e la polvere simpatetica, già ritenuti eccellenti, pur fra infinite polemiche e contraddizioni, come rimedi contro le ferite inflitte sia con armi bianche che “da fuoco”.

E peraltro i DORIA di Dolceacqua ancora nel XVIII secolo facevano uso di sostanze medicamentose notoriamente connesse alla teoria delle antipatie e simpatie tra micro e macrocosmo: un sistema interpretativo, cui tra molte perplessità, specialmente in merito alla giustificazione di certi culti delle reliquie aveva spesso finito per avvicinarsi la Chiesa Romana, come ad esempio nell’interpretazione del miracolo di San Gennaro.

L’origine di questi medici ambulanti venditori di balsami, spacciati per prodigiosi, ma talora forse anche per suggestione non privi di effetti (per esempio, lo iatrochimico belga Van Helmont dopo i fallimenti di tanti medici ufficiali fu guarito dalla scabbia proprio da uno di questi terapeuti da strada italiani), logicamente fiorì intorno ai presidi militari e come codazzo di eserciti in cui i medici vulnerari, cioè i medici militari erano pochi e sempre provvisti di una strumentazione ancora rudimentale e di farmaci dai limitati effetti: del resto fra la truppa non era il morire la cosa più temuta, ma era il dolore, cioè una sofferenza fisica non alleviabile da alcun sedativo e spesso acuita dall’opera di chirurghi assai poco esperti.

Per questa ragione ci si rivolgeva anche a praticanti della mai morta medicina popolare, alle medichesse superstiti dalla lotta alla stregoneria e quindi ai praticanti di medicina alternativa, compresi appunto i venditori di unguenti (unguentarii).

Ed i mulatieri si recavano a far lavoro di trasporto di merci per la costa ligure sin a Genova ed oltre e poi anche in territorio francese. Dopo la frontiera come anche si soleva dire, sia quando si andava in Provenza che nelle Alpi Marittime che ancora, ad esempio, al Portofranco sabaudo di Nizza e Villafranca).

Eseguivano tantissimi compiti, ma vale qui la pena di menzionare alcuni trasporti tipici, che cioè caratterizzarono la loro attività, sia che si trattasse di spostamenti singoli (su percorsi limitati, per esempio si ai porti e agli scali commerciali) sia su tragitti lunghi, specialmente quando le bestie mulatine (o mulattine) venivano organizzate secondo il sistema della caravana o carovana cioè per grossi contingenti di animali ed uomini destinati a procedere incolonnati attraverso le asprezze dei malandati percorsi litoranei.

Fu con siffatto sistema che questi trasportatori liguri condussero per secoli nelle regioni più lontane le merci e, nella fattispecie della Liguria ponentina, alcuni suoi prodotti storici: tra cui giova citare l’OLIO D’OLIVA, gli AGRUMI, PALME – PALMIZI – PALMURELI ed il VINO (senza dimenticare quei prodotti che, magari per lunghi periodi prima di decadere, hanno costituito una voce significativa della produzione ligustica come, ad esempio, il CORALLO che i MULATTIERI LIGURI OCCIDENTALI trasportarono per secoli verso il Piemonte e la “Padania”).

da Cultura-Barocca