Perinaldo (IM)

Dal 1288 Perinaldo (IM) ed il suo strategico territorio entrano a far parte della Signoria dei Doria di Dolceacqua.
Secondo i Diritti dei Doria del XVI sec. vengono ribadite per il borgo le identiche rubriche degli altri paesi colla variante del VI e VII cap. ove si stabilisce che i residenti debbano versare alla Purificazione in Febbraio 75 lire genovesi al Signore, che a Natale i bandioti debbano al Signore duo motones novellarii pingues…una crupa ovis optimae…e in festo Paschatis duo capreoli vel florenum unum pro libito voluntatis domini.

In Perinaldo, nel luogo detto la Loneta, i Doria possedevano poi due frantoi, in quello inferiore vi erano quattro botti grandi, due vasi lignei, di cui uno molto grande per contenere le olive e l’altro per riporvi l’olio, un’Hydria assai capace e quattro situlae.
Nel mulino superiore stavano invece tre botti grandi, tre piccoli tini, quattro situlae, una tineta, 34 sportulae, 2 corbulae, 2 anelli di ferro, ed uno strumento per aspirare l’olio d’oliva.
La rubrica 99 degli Jura o DIRITTI DEI DORIA menziona inoltre che a riguardo “Dei prati” il Signore di Dolceacqua ne aveva tre all’Alpicella (Arpexella), un altro sito al luogo “screpin” ed un altro ancora a “campi”.

Dal 1559 dopo la pace di Cateau Cambresis si succedono alterne vicende per la Signoria dei Doria in bilico nelle alleanze con la Repubblica di Genova od il Piemonte.

I rapporti fra i Doria ed i Savoia si guastano nel XVII sec. e nel 1625, durante la guerra tra Genova e i Savoia, la Signoria di Dolceacqua si allea con la Serenissima Repubblica di Genova.

Per reazione le truppe sabaude invadono i territori dei Doria: questi potranno rientrare poi in possesso del loro Dominio solo dal 1652 dopo aver prestato atto di vassallaggio ai Savoia ed aver visto trasformare l’antica Signoria in Marchesato, che da tal data entra del tutto nell’orbita politica piemontese.

Nel 1672, sorto un altro conflitto dei Savoia con Genova, il Marchesato viene invaso dalle forze genovesi ed il borgo di Perinaldo viene saccheggiato sì che la sua fortezza, posta sullo sperone ovest dell’altura a controllo delle vie di crinale, viene del tutto demolita (oggi ne sopravvive solo il nome nella “Piazza Castello”.

Da questo momento Perinaldo non patisce più altri danni ma entra nella crisi socio-economica dell’intero Marchesato, che entra in decadenza irreversibile dopo la distruzione del Castello di Dolceacqua durante la Guerra di Successione al Trono imperiale del XVIII secolo.
Esplosa la Rivoluzione francese ed affermatasi la stella di Napoleone, col trattato di Presburgo (28-XII-1806) Repubblica di Genova, Piemonte e tutti gli staterelli vicini diventano parte stessa dell’Impero francese.

Dopo la sconfitta di Napoleone (1814-’15) ed in seguito all'”Atto finale” del Congresso di Vienna (9-VI-1815) il Piemonte si trasforma in Regno di Sardegna, annettendosi il Dominio della soppressa Repubblica di Genova.

Non più contesa fra potenti rivali e non essendo più fortilizio sito su ambigui confini, Perinaldo prende a fiorire.

Da questo momento la sua storia si identifica con quella del Regno Sardo e, dal 1861, del Regno d’Italia.

Perinaldo, che gode di buon clima ed è immerso in un ambiente naturale molto bello, ha discrete risorse architettoniche.

Oltre alla sopravvivenza, ai lati est ed ovest di Piazza Castello, di due volte con copertura a botte (da collegare con le antiche fortificazioni) il paese si qualifica per la parrocchiale di San Nicola (o più precisamente della COLLEGIATA DI SAN NICOLA), la cui costruzione risale al 1489 anche se durante il ‘600 la chiesa venne modificata in linea col gusto barocco.
Nel 1887 il terremoto che demolisce Bussana e seppellisce centinaia di vittime nella parrocchiale di Baiardo, arreca gravi danni anche alla parrocchiale di Perimaldo, rovinandone l’abside, la facciata ed il campanile.
Per questo risultano oggi assai interessanti i restauri effettuati tra il 1966 ed il 1969 in forza dei quali l’antica chiesa si può oggi ammirare nella sua originale linea quattrocentesca, con l’armoniosa successione di belle colonne sormontate da capitelli cubiformi.

Tra il patrimonio della chiesa parrocchiale è da ascrivere una tela, denominata comunemente Delle Anime, datata della II metà del ‘600 ed attribuita alla scuola del Guercino (Giovanni Francesco Barbieri, da Cento).

Perinaldo (IM) – Il Castello Maraldi

Ancora dignitoso compare l’edificio del Castello Maraldi dimora, tra XVII e XVIII sec., degli astronomi e cartografi Cassini, Maraldi e Borgogno.

Il SANTUARIO DI NOSTRA SIGNORA DELLA VISITAZIONE sorge non lontano dalla storica STRADA DEL VERBONE su di un poggio che guarda a nord verso il paese.
Si tratta di una CHIESA CAMPESTRE eretta nel 1600 dagli abitanti di Perinaldo: sarebbe stata collocata in tale posizione, in linea del meridiano ligure, su proposta di GIANDOMENICO CASSINI.
Dopo un lungo abbandono il SANTUARIO fu restaurato per volontà popolare e riconsegnato alla pratica della fede il 22-8-1965 come si apprende da una iscrizione sulla facciata: sull’ingresso in pietra arenaria domina una STATUA DELLA VERGINE mentre sopra l’altare è stata posta una tela raffigurante la MADONNA DELLA MISERICORDIA.
Nel dialetto di Perinaldo la CHIESA è detta MADONA RU POGIU RU REI cioè “Madonna del Poggio dei Rei”: secondo la tradizione tale nome le sarebbe stato conferito in quanto, secondo i canoni del DIRITTO INTERMEDIO, gli individui CONDANNATI A PENE CORPORALI dovevano procedere in una sorta di corteo tutto intorno il SANTUARIO iindossando ABITI DA PENITENTI, PORTANDO UN PARTICOLARE CAPPELLO SE NON UN CAPPUCCIO.
La tradizione non è affatto priva di fondamento.
Non era per nulla raro nel passato il caso di REI (come meglio si indicavano le persone giudicate COLPEVOLI DI REATI, per motivi religiosi o civili, costretti a compiere dei percorsi obbligati in vari luoghi pubblici: ciò lo si ricava dalle norme di molti STATUTI CRIMINALI E CIVILI e, su scala più estesa dal DIRITTO PENALE E CIVILE DEGLI STATI.
La pena più temuta, secondo gli STATUTI DI GENOVA [che son poi simili se non più miti di altri, compresi quelli dei SAVOIA] era di PROCEDERE TRAINATI DA UN ANIMALE SIN AL LUOGO DELLA PENA ed in particolare, fra vari tipi di CRIMINALI [dannati alla pena di caminare (spesso a stento dopo le TORTURE RICEVUTE PER OTTENERE UNA QUALCHE CONFESSIONE) sotto lo sguardo inflessibile del BOIA E DEI SUOI SERVENTI sin a determinati luoghi di culto nel presso dei quali essere poi puniti sotto gli occhi di tutti], in particolare molto di frequente comparivano i LADRI.

da Cultura-Barocca

Sentir squittire i demoni del gran male

Dolceacqua (IM): Castello Doria e Chiesa Parrocchiale di Sant’Antonio Abate

Dolceacqua e dintorni nel Seicento … morire di terrore nell’attesa di “Sentir squittire i demoni del gran male”…quando invece non sarebbe stato male far del sano sesso e soprattutto lavare e lavarsi…

Ma chi lo poteva immaginare data l’epoca, visto il superstizioso timore dei bagni pubblici e l’imperante sessuofobia? Ma non era colpa di nessuno!…tutta Europa era coinvolta in questo modo di intendere la vita…! O meglio…qualcuno non la pensava così…certi medici per esempio, il gran Baliani e, sembra strano, il ventimigliese Angelico Aprosio…!!!!!

Già proprio lui, … sicuramente il talento letterario più celebre di Ventimiglia…ma non solo talento letterario.

Aprosio era un “raccoglitore del tutto”! ma per nulla caotico! certo bisogna intuire l’ordine che lo guida e conoscerne la decrittazione per giungere ai valori di fondo…

Comunque se lo si legge anche senza grosse pretese ma con la voglia di capire, le sue riflessioni di fondo si recepiscono bene!… La difficoltà deriva dal fatto che come altri nel suo tempo fu tante cose oltre che bibliofilo.

E’ naturale che sapesse tante cose, era intelligente, curioso, bibliotecario di gran nome, inquisitore, esorcista, predicatore, letterato di fama, polemista, antifemminista, antiquario-collezionista, studioso di esoterismo e paranormale. Invero di qualcuno di questi (ed altri) suoi interessi non amava far pubblicità…all’epoca si poteva finir male scrivendo troppo di demoni e di streghe…ma anche di donnine allegre spacciate per puttanone (specie poi se eran potenti!)

Aprosio non mancò di “Sentir squittire i demoni del gran male”…ma gli accadde a Genova, che fu falciata dai Demoni o meglio dalla Peste (tra Demoni, Untori e Ratti si faceva sempre gran confusione).

Forse, tornato sconvolto a Ventimiglia dopo una leggendaria (e naturalmente ignota) cavalcata notturna, dal Convento Agostiniano, ove si barricò coi confratelli, attese anche lui l’arrivo della Morte, pure lui si mise ad orecchiare nel timore di “Sentir squittire i demoni del gran male”.

Ma l’olocausto che cancellò più di 100.000 persone dal Dominio di Genova non imperversò nel Capitanato intemelio…

Ma eran Demoni, davvero…erano Untori….i propagatori del Male? vi si credette ancora fin all’800 a livello popolare…!?! No! eran i “Ratti delle Chiaviche” attratti dalla sporcizia, dalla mancanza di igiene pubblica ed ambientale, i ratti veicolo del parassita della Peste:…sarebbe forse bastato nettare i siti, non avere fogne a cielo aperto, combattere gli impaludamenti….ma che se ne sapeva all’epoca!!!!

Eppure Angelico Aprosio lo aveva intuito e ne aveva anche scritto!!!…tramite l’astrologia (quindi da uomo del passato) aveva, con calcoli astrusi, prevista una qualche calamità…tenendo giustamente conto, anche, di certe oscure congiunzioni astrali. Ma da amante (in segreto, molto in segreto) della scienza nuova (e quindi da uomo moderno) questa sorta di acuto Giano Bifronte aveva pensato che molto dipendesse per tanto sfacelo pure dall’aver abbandonate le tecniche romane di igiene della persona e dell’ambiente.

Anche ambientalista, dunque, Aprosio?..ma sì!…certo che per capirlo bisogna leggerne le opere…anche solo quelle stampate… Un ambientalista a dir il vero poco ascoltato (come in tante altre cose…la superbia intellettuale era certo un suo difetto)…forse per questo nella sua Biblioteca diede tanto luogo d’onore alla rara satira di N. Villani “Nos canimus surdis”….sì doveva sentirsi poco ascoltato….ma a dire il vero questo non è capitato solo a lui…

di Bartolomeo Durante, da Cultura-Barocca

Piemonte e ponente ligure

Airole (IM): uno scorcio

L’influenza pedemontana sulla Liguria e specialmente su quell’area strategica di grande importanza che da sempre fu l’estremo Ponente Ligure risale a tempi remoti e – senza poter elencare tutte le circostanze – si può già citare a titolo proemiale l’influsso che le grandi case monastiche pedemontane ebbero in forza della loro espansione e su un tragitto di pellegrinaggi della fede dal Cenisio al mare di Ventimiglia (IM) dopo la sconfitta (alla fine del X secolo) dei Saraceni del Frassineto.

Le ragioni fideistiche si coniugarono presto con motivazioni temporali e commerciali legate al controllo di tratti importanti per le diramazioni delle vie dell’allume, delle spezie e soprattutto del sale.

Tra gli obbiettivi pedemontani e quindi sabaudi rientrava il controllo della via del Nervia, attesa l’asperrima Valle del Roia al cui terminale dopo l’esperienza certosina fungeva da guardia – con altre località – il centro di Airole di cui Ventimiglia si definiva “Consignora”.

Lo Stato Sabaudo si trovò con il tempo nella condizione di controllare la base navale di Nizza e quindi quello che sarebbe divenuto il Principato di Oneglia. Più lenta e graduale fu la penetrazione sabauda verso il mare di Ventimiglia di maniera che un punto cardine può esser giudicata l’assimilazione di Pigna di rimpetto alla quale stava la forte, genovese base di Castelfranco poi Castelvittorio (IM).

E’ nel XVI secolo che in Val Nervia gli equilibri assunsero una piega che si rivelò – specie col tempo – favorevole allo Stato Sabaudo. Lo scontro successivo all’omicidio (1523) del Signore di Monaco, perpetrato da Bartolomeo Doria dell’omonima Signoria di Dolceacqua e Val Nervia, si evolse con la reazione di Agostino Grimaldi, che conquistò il territorio del nemico al punto che, data la generale condanna dei vari Potentati, al fuggiasco Bartolomeo Doria non rimase altra soluzione che cedere i suoi possessi con atto di vassallaggio ai Savoia per esserne contesualmente investito. Tramite simile evento, nonostante la sostanziale autonomia della Signoria dei Doria, il loro possedimento, di indubbia valenza strategica, divenne un punto chiave nella valle per i rapporti tra la Repubblica di Genova e lo Stato Sabaudo che, dato l’atto di vassallaggio dei Doria, poteva comunque partire da una posizione vantaggiosa.

Ed è proprio nel XVII secolo che prendono corpo quei conflitti aperti tra Genova ed il Ducato Sabaudo che coinvolgono espressamente il Ponente di Liguria.
Il primo conflitto è databile al 1625. Le difficoltà di Genova non sono solo di rimpetto ad un nemico oggettivamente più interno, ma nel contesto del Ponente stesso già contrastato da varie problematiche, tra cui lo stato di perenne tensione tra ville e città nel contesto del Capitanato di Ventimiglia, aggravato da una rivolta popolare avverso la nobiltà locale, bensì anche l’inerzia di Genova e dei suoi comandanti militari a fronte di un nemico vincente. Ed è in siffatto clima che si predispone la congiura filosabauda che prende nome da Giulio Cesare Vachero.

Il secondo conflitto del 1672 è del pari connesso alle mire espansionisiche sabaude ed ancora ad una congiura antigenovese, capeggiata da Raffaello della Torre al fine di organizzare una rivolta in grado di abbattere il governo repubblicano genovese o quantomeno creare nel Dominio ligure un disordine bastante a poter conquistare l’importante piazza di Savona.
I provvedimenti presi da Genova per rinforzare Savona concorrono a capovolgere la situazione sino al punto che le forze sabaude entrano in aperta crisi e necessitano di un pronto intervento di ulteriori contingenti per riconquistare la perduta base di Oneglia.
A questo momento interviene la diplomazia ma nel suo contesto a testimonianza degli intrighi esistenti in seno alla Repubblica emerge anche l’ambigua posizione del pubblicista genovese Francesco Fulvio Frugoni – assunto per attestare le responsabilità dello Stato Sabaudo connivente con il della Torre – sul cui ondivago comportamento filosabaudo alcune cose si sanno anche in funzione di quattro sue lettere all’Aprosio.

La Savoia continuò più o meno occultamente a covare ambizioni di espansionismo in Liguria. La persistenza di contenziosi, più diplomatici che guerreschi tra Genova e Piemonte Sabaudo in effetti si manifestò sempre, seppur in forme men eclatanti, sui limiti di un contrastato confine. A titolo esemplificativo si può qui citare il caso nell’estremo Ponente dell’antichissimo possedimento monastico di Seborga, detto anche “Feudo della Seborga”, alla fine, nell’ambito di una questione tuttora assai controversa, assimilato dai Savoia – fra le opposizioni genovesi – per acquisto dalla Casa Madre.

La soluzione da parte della Serenissima Repubblica di Genova dei contrasti seicenteschi con il Piemonte Sabaudo sancisce però l’avvento di destini diversi fra le due Potenze (anche se non sempre intercorsero rapporti competitivi. Genova anzi accettò di ospitare la Corte Sabauda che portava con sé la Sindone quando Torino fu sotto assedio durante la “Guerra di Successione al trono di Spagna.

In effetti si stavano oramai aprendo nuovi percorsi al tempo e purtroppo alle guerre con l’insorgere di quei conflitti continentali e non solo destinati a fare del Piemonte una Potenza di rilievo, evolutosi al segno di pianificare l’Unità d’Italia grazie anche ad un’industria bellica avanzata e di rilievo esperita già dal ‘700.
Al contrario si dovette assistere alla graduale relegazione di Genova e del Dominio in un posizione geopoliticamente subordinata e di difficile neutralità, nonostante atti di valore come la rivolta – nominata dal “Balilla”- contro le vessazioni austriache. Del resto nell’ arco temporale in cui si decidono i destini d’Europa, e in parte del Mondo, la Repubblica si trova obbligata a risolvere con dispendio di energie gravi problemi interni come l’annosa questione del conteso Marchesato di Finale, ma anche – tra altre cose – a domare a Sanremo una rivoluzione popolare, duramente piegata con le armi e presupposto dell’erezione di un Forte alla Marina, come si legge qui nel “Manoscritto Borea” che indica anche le truppe scelte per controllare la popolazione della città.

E’ arduo dire se tutte queste difficoltà intestine, senza dubbio centrifughe e destabilizzanti, dell’antichissima e gloriosa Repubblica abbiano condizionato le scelte future in merito al suo destino. Fatto sta che non venne più restaurata – dopo tante illusioni ai tempi della Repubblica Democratica Ligure susseguente alla Rivoluzione Francese e alle gesta napoleoniche per cui caddero gli Stati del Vecchio Regime – quale “secolare libero Stato” – una volta finita l’esperienza napoleonica innovatrice certo ma nemmeno priva di responsabilità, a riguardo della gestione di quella che fu una Grande e Possente Repubblica – ma, piuttosto, in forza dei deliberati del Congresso di Vienna fu, tra lo sgomento di molti, assimilata quale possedimento del Regno di Savoia e quindi organizzata entro la “Grande Liguria delle Otto Province”, destinata abbastanza presto ad essere ridimensionata per la cessione di Nizza (con la Savoia) allo scopo di ottenere a fianco di Vittorio Emanuele II l’intervento di Napoleone III Imperatore dei Francesi nella II Guerra di Indipendenza presupposto basilare per l’Unità d’Italia.

da Cultura-Barocca

Sulla distruzione del Castello di Dolceacqua (IM)

L’analisi sistemica del castello di Dolceacqua ha permesso di enucleare almeno quattro fondamentali interventi architettonici, il primo dei quali è stato datato, un pò genericamente, fra i secoli antecedenti il Mille e la II metà del Duecento: vi si riconobbe un piccolo complesso feudale, con MASTIO angolare a pianta quadrata e cinta difensiva turrita con evidenti derivazioni dai fortilizi di guardia altomediovali.

A prescindere dalla peculiarità che il tipo strutturale della torre circolare sia comparso nel settentrione italiano solo nel XV sec. mentre nel Lazio era stato un retaggio della DOMINAZIONE BIZANTINA e del sistema difensivo militare su cui vertevano sia Esarcato sia la Pentapoli: bisogna comunque precisare che la torre cilindrica del forte di Dolceacqua non svolse mai funzione di MASTIO ma appartenne ad una struttura difensiva perimetrale propria del rifacimento della più antica cinta muraria conosciuta.
In base alle ultime ricerche si può affermare che il fortilizio di Dolceacqua, nel XII sec., doveva già essere il risultato di varie stratificazioni murarie: fra i relitti delle costruzioni precedenti risulta significativo il basamento di una più antica torre quadrata mentre vari ambienti per servizi, scoperti a Nord del cortile, fanno ipotizzare l’ arcaica esistenza di un piccolo organismo militare che si avvaleva in origine della protezione naturale offerta in gran parte dallo strapiombo a picco del colle.
La genesi morfologica di quanto è ricostruibile su tale struttura rimanda per vari aspetti ai connotati del sito difendibile con pochi uomini purchè provvisto di un meccanismo di approvvigionamenti (ed in questo caso si deve segnalare la cisterna, per il rifornimento idrico, del più antico cortile): in linea comparativa con la struttura limitanea greca di Campomarzio, è sostenibile che negli strati inferiori del castello di Dolceacqua possa occultarsi una GENESI BIZANTINA, tenendo anche conto del fatto che gli ingegneri imperiali di Costanzo, per ovviare alle carenze di organico militare, progettavano i fortilizi del Limes in modo da sfruttare al massimo le posizioni strategiche e le protezioni naturali del terreno (secondo la tecnica romana delle fortificazioni limitanee nei Balcani, laddove castelli e forti stavano a guardia di inaccessibili passi e gole, rimanendo in contatto fra loro per via di un controllo capillare delle strade montane).

Il castello di Dolceacqua proprio perchè dominava la valle del Nervia, con enormi vantaggi militari per chi lo occupasse, patì DIVERSI ASSEDI con armi specifiche di cui è rimasta menzione in alcuni CODICI DISEGNATI E MANOSCRITTI.

Nel 1181 il castro dolceacquino venne ricordato, assieme a quello di Barbaira (Rocchetta), dal conte Oberto di Ventimiglia che, essendo in guerra coi suoi cittadini, espresse pubblica lagnanza pei danni arrecatigli dai ribelli in questa parte del contado: è interessante notare che suo figlio, quasi avesse seguito un percorso strategico, per sfuggire ai nemici aveva abbandonato al saccheggio il castello di Dolceacqua onde rifugiarsi coi suoi in quello di Rocchetta Nervina: dopo una nuova sconfitta, sceso in val Roia, s’era trincerato nel forte comitale di Sancta Agneta (S.Agnes) ove fu ancora sconfitto dai ribelli, che tra l’altro uccisero il castellano del luogo, 3 uomini ed una donna.
Nell’agosto 1454 e nell’aprile 1458 il Castrum Dulcisaquae patì 2 altri assedi, ad opera dei Guelfi, appoggiati dai Signori di Monaco: in occasione dell’ultimo, come si evince da un atto del notaio Giraudus, gli Ufficiali di Guerra intemeli, che (oltre alle solite BALISTAE ed ONAGRI) avevan portate alcune BOMBARDE o rudimentali bocche da fuoco, allo scopo di prendere il castro fecero scavare un fosso che correva sulla sponda sinistra del Nervia dalla barbacana (terrapieno difensivo della cinta muraria) in direzione Sud.

Delle prime BOMBARDE si ha notizia già nel XIII sec. ed erano fatte di verghe di ferro disposte come le doghe delle botti e saldate e rinforzate esternamente da cerchi di ferro> in tempi successivi vennero fuse in ferro, bronzo od altre leghe metalliche (erano costituite di due parti: la tromba in cui si metteva la palla in pietra , od anche vario materiale contundente, e la posteriore -detta gola o coda- dove stava la carica di lancio. Vista la data dell’assedio è fattibile che si trattasse di un’arma già più evoluta -con il termine bombarda si indicò generalmente l’artiglieria fino all’avvento del cannone a fine ‘400- e, tenendo conto che ci si riferisce a truppe assedianti è fattibile che le nominate bombarde corrispondessero alla tipologia del mortaro o trabocco tipico delle forze di terra impegnate in un assedio: non è da escludere invece che il castello avesso una dotazione di spingarde a mascolo: il nome spingarda dapprima indicava artiglierie sottili e ad anima lunga e quindi passò ad indicare armi da fuoco portatili a canna più lunga dell’ordinario, quasi sempre a mascolo cioè incavalcate su affusti a ruote.
Dal documento notarile emerge quello che sarà un difetto costituzionale del Castro, ideato in tempi antichi per ben altre armi: se nel XV sec. già preoccupavano le Bombarde che scagliavano per breve tratto ed imprecisamente i proiettili di pietra, è evidente che il fortilizio sarebbe stato inerme difronte alla buona artiglieria con cui i Gallo-Ispani avrebbero poi tormentata Dolceacqua nel XVIII sec.

La DISTRUZIONE DEL CASTELLO di Dolceacqua, nonostante i diversi assedi patiti nei secoli, risale al periodo della guerra di successione al trono imperiale austriaco di metà ‘700 quando, nell’ambito di questo conflitto europeo e coloniale, il fronte occidentale assunse un rilevo straordinario nella contesa tra le armate congiunte di Francesi e Spagnoli, [per cui Ventimiglia medievale divenne in vari momenti una sorta di fronte avanzato e fortificato] protette sulla costa ligure dalla flotta inglese, e gli eserciti di Austria e Piemonte (Regno di Sardegna) i quali, dopo varie difficoltà, avrebbero realizzato e controllato un vasto sistema di fortificazioni che procedeva dal pignasco, si potenziava sulle alture di Dolceacqua e si estendeva verso la foce del Nervia [entro cui eressero postazioni di batterie, realizzandovi anche un “bastione militare detto di San Pietro” e le cui sponde collegarono per via di un ponte ligneo, disposto sfruttando certe isole nel torrente, che permetteva loro di stare in contatto con la ridotta Guibert, l’agro dei Piani di Vallecrosia ed i quartieri militari di Bordighera] il Campo di Nervia ove [a causa di tonnellate di sabbia trasportata per secoli dal vento e poi per i ripascimenti di un vasto terreno agricolo divenuto verso metà del XIII sec. Prebenda del Capitolo della Chiesa Cattedrale di Ventimiglia medievale] stavano sepolti i resti della Ventimiglia romana.

Dal Theatrum Sabaudiae, Amsterdam, 1682 in B. Durante-R. Capaccio “Marciando per le Alpi…” , Cavallermaggiore [Gribaudo-Paravia], 1993

Dal Theatrum Sabaudiae, Amsterdam, 1682 in B. Durante-R. Capaccio “Marciando per le Alpi…” , Cavallermaggiore [Gribaudo-Paravia], 1993

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ma con la distruzione del castello, giunse anche quella di uno dei suoi gioielli dell’epoca signorile, quel GIARDINO RINASCIMENTALE, cui dal castello si accedeva tramite il ponte sul Nervia. Il GIARDINO -per la cui manutenzione si era ultimamente fatto ricorso agli insegnamenti tanto di M. Bidet, “uffiziale” della Corte di Francia quanto di Fra Agostino Mandirola… nel XVII sec. questo GIARDINO era uno dei pochi luoghi del Ponente di Liguria in cui erano coltivate piante che si sarebbero affermate a fini alimentari dal sec. XVIII come il “Pomo di Terra” e il “Pomo d’Oro”. A Dolceacqua fu emotivamente legato il secondo bibliotecario dell’Aprosiana di Ventimiglia (IM), quel Domenico Antonio Gandolfo, che altresì si interessò di erboristeria – fitterapia e che del giardino rinascimentale e d’alcune esperienze botaniche parlò in un suo rescritto definendolo un nuovo “GIARDINO DEL PIACERE”]

Dal piano del Campo le fortificazioni austro-sarde giungevano sin alla loro testa di ponte ricavata nel fortificato (tra 1746-’47) Convento di S. Agostino nell’attuale sito di Ventimiglia moderna mentre altre fortificazioni, nel pieno della guerra e dopo le grandi opere di edilizia militare portate avanti dagli austriaci, si ramificarono ovunque provenendo dall’area del Convento di Dolceacqua e seguendo antichi tragitti, provvisti di complessi bellici di difesa o di attacco snodantisi fin al sistema montuoso minacciosamente gravitante su Ventimiglia di Maure/Siestro/S.Giacomo e già usato ai tempi della conquista genovese della città.
Nei primi anni della guerra, ai tempi dell’avanzata dei Francesi e degli Spagnoli, che facilmente conquistarono Ventimiglia [a scapito delle forze nemiche ma anche della repubblica di Genova, ambiguamente neutrale quanto strategicamente importante, soprattutto indifesa e con un Dominio destinato ad esser percorso più volte da eserciti stranieri in guerra da loro e causa di danni gravissimi] il GENERALE SPAGNOLO MARCHESE LAS MINAS fu il vero “DISTRUGGITORE” del CASTELLO di DOLCEACQUA che costituiva ormai un sistema fortificato del tutto superato e rispondente piuttosto ai criteri bellici del rinascimento.
Esso era difeso mirando infatti soprattutto alla protezione del ponte sul fiume e non delle colline circostanti. Sui bastioni si potevano contare tre cannoni in bronzo, due “sagri” o “colubrine” (armi tipiche del XVI secolo che sparavano palle in ferro del peso di 12 libbre), un mortaio, quattro spingarde calibro 15.
Gli uditori generali sabaudi prevedendo degli attacchi a questa principale difesa del Marchesato avevano fatto dotare il castello di artiglieria pesande provvedendo pure all’eliminazione dei loggioni rinascimentali sì che il bel maniero era di fatto divenuto una fortificazione in cui avevano sede anche le aule del tribunale, delle carceri e dell’autorità sabauda come è annotato alla nota 23 di p. 67 del volume MARCIANDO PER LE ALPI….

Forte del suo ruolo di comandante dell’armata spagnola, per dare ai nemici in ritirata una prova d’efficienza bellica (mentre si dava con 3670 soldati iberici al loro inseguimento sin alla sabauda ONEGLIA che prese ma dove però gli Austro-Sardi lo fermarono tenendo ben saldo il controllo dell’entroterra) il Las Minas il 7-V-1744 ordinò ad una colonna di 800 uomini (forniti di una moderna ARTIGLIERIA DA CAMPAGNA), proveniente da Sospel, di calare su Dolceacqua e prenderne, anche distruggendolo, il castello a guardia della via del Nervia e difeso da una guarnigione di piemontesi al servizio del Sabaudo Conte Rivara [il Marchesato di Dolceacqua abbandonata una politica ambigua che lo collocava tra Genova, cui per tradizione appartenevano i Doria, ed il forte Stato Piemontese dei Savoia in espansione verso la costa ligure ponentina] oltre che potenziato da una postazione d’artiglieria, purtroppo fissa e non quindi in grado di spostare il tiro su eventuali bersagli in movimento o siti fuori del suo raggio d’intervento.

Tre MODERNE BATTERIE DI CANNONI SPAGNOLI DA CAMPAGNA, per un giorno e quasi indisturbate, bombardarono DOLCEACQUA e il CASTELLO: le batterie erano state ben disposte, in modo da sviluppare un micidiale fuoco incrociato.
Esse sparavano dal sito del Convento dolceacquino, ove la colonna era giunta subito, e dalle postazioni, successivamente raggiunte, del monte Bottone e della chiesa di S. Giorgio.
I danni si rivelarono presto ingenti e lo stesso giorno dell’attacco (17 maggio 1744) il Conte Rivara ritenne conveniente arrendersi, visto anche che non solo il forte ma anche molte case venivano colpite e mutilate con perdite umane.
Franco-Spagnoli ed Austro-Sardi si sarebbero poi ripetutamente contesa la base militare del castello di Dolceacqua, in un alternarsi di avanzate e fughe più o meno ragionate in funzione dell’importanza strategica degli itinerari che ad esso conducevano.
Di questo percorso che collegava VENTIMIGLIA con AIROLE QUASI A GUARDIA DELLA VAL ROIA/ROJA E DI CUI VENTIMIGLIA ERA DETTA “CONSIGNORA” e quindi, naturalmente, con DOLCEACQUA E LA VALLE DEL NERVIA per immettersi sulla DIRETTRICE NERVINA VERSO L’OLTREGIOGO si valse, seppur a ritroso, durante la guerra di successione al trono imperiale il re piemontese CARLO EMANUELE III.
Passando per Dolceacqua [momentaneamente ripresa] con 2000 soldati il 10 ottobre 1746, osservando i ruderi del castello dal sito del Convento di Nostra Signora della Muta (Mota), mentre appunto prendeva la diramazione per Ventimiglia e la strada del Roia, si rese conto della sua inefficienza (e quindi dell’inutilità di un possibile restauro) contro i moderni cannoni e decise di farlo smantellare come baluardo militare.
Sapeva bene il condottiero piemontese che per la strategia del suo tempo erano necessarie, in quei siti, fortificazioni d’altura, certo meno pittoresche ma più efficienti e che egli fece lestamente realizzare dagli ingegneri di guerra Guibert e Rombò e che furono poi abilmente gestite dal condottiero germanico al servizio dei Savoia, Barone di Leutrum.

da Cultura-Barocca

Sull’antica Cartiera di Isolabona (IM)

La Signoria dei Doria di Dolceacqua (IM) sulla base degli Jura o diritti di siffatta Signoria Bannale deteneva  ad Isolabona (IM) una CARTIERA o aedificium papyri, già affidata al maestro Bartolomeo Villano.

Non era una novità nel genovesato e soprattutto nell’area dell’attuale località di Voltri sorgevano numerose ed attrezzate cartiere, a testimonianza di un’attività manifatturiera di rilievo nella Serenissima Repubblica, anche praticata da altre nobili famiglie.

La Cartiera, che sorgeva a valle del borgo di Isolabona della Signoria di Dolceacqua, fu eretta tra XIV e XV secolo.

La Cartiera della Val Nervia non è altro comunque che la conferma dell’estensione del fenomeno dell’industria della carta proprio del Genovesato.

A riguardo di questa cartiera di Isolabona nel 1580 Stefano Doria, per testamento, lasciò al parente, conte Geronimo Doria di Cirié, “centocinquanta balle di papiri fatti nell’edificio di Dolceacqua“.

Il Briquet (Les papiers des archives des Genes et leurs filigranes in “Atti della Società Ligure di Storia Patria”, 1888) individuò carte del XV sec. di una “Cartiera di Isolabona”, in cui vi era la filigrana dei fabbricanti genovesi, il guanto sormontato da una stella.

Analizzare la Cartiera non sarebbe solo un modo per ripensare al Castello di Dolceacqua ma a ripensarlo in connessione con almeno tre sue strutture importanti dal lato scientifico di cui è possibile scrivere ancora parecchio. Il giardino rinascimentale svolgente ruolo di orto botanico. L’ex Biblioteca del Castello che non doveva esser affatto modesta, nonostante le innumerevoli peripezie, anche per i rari manoscritti che custodiva. E finalmente quella che potrebbe modernamente definirsi Farmacia/Gabinetto Medico del Castello; anche se occorre sempre rammentare che come tutti nella loro epoca, e specie quelli che se lo potevano permettere, in questo “Gabinetto Medico” accanto a terapie strutturate secondo i principi scientifici tuttora in auge e coerenti con le attuali postulazioni della scienza o medicina allopatica, i Doria si avvalevano anche di medicine simpatetiche quali gli “essudati delle Reliquie” e parimenti dei “prodotti alchemici presunti attivatori del magnetismo universale: dall’unguento armario alla polvere simpatetica”.

Presso la Biblioteca di Ventimiglia, Fondo Bono, ms. 1 (anni 1579-80) si conservano lettere di Stefano Doria, redatte sul supporto cartaceo di questa cartiera.

I ruderi dell’edificio evidenziano una modifica italiana alla STRUMENTAZIONE ARABA di queste aziende, l’innovazione del maglio a testa di pietra azionato da ruota idraulica.

L’analisi di qualche campione di carta di questa CARTIERA di ISOLABONA, trovato in area sabauda, permette peraltro di riconoscere la metodica di collatura con gelatina animale onde conferire alla carta doti di conservabilità (documento vergato su entrambi i lati del 1436 della Certosa di Pesio= Arch. Privato).
Per la lavorazione si usavano stracci di lino e quindi di canapa.

Da lettere dei ventimigliesi Battaglino Orengo (1509) ed Antonio Orengo (1521) si evince che tal carta era commercializzata su l’arco ligure e per il Piemonte.

da Cultura-Barocca

Dai “Diritti dei Doria” del 1523

La Signoria Doria nel 1523 possedeva in Apricale una “terra aggregata” in località “gunter”, parte di un campo “in luogo li Rossi”, una terra aggregata nella “fascia la grassa”, una pezza di terra aggregata a la canavayra “(il cui toponimo rimanda ad una coltura di canapa), due gerbidi a “la croixe” ed uno in zona “lantigho”.
I Doria avevano poi terreni coltivati in luogo “lo bral”, due castagneti nelle località “lo sangue” e a “le conzynaire”, quattro altri campi, uno a “lo campeto”, due a “fori”.
Altri beni immobili eran costituiti da 4 castagneti (località “S. Giovanni, Ortomoro, faxia de carletto sive giraudo, faxia curla“).
Oltre ad un campo nel luogo la grassa e terreni presso S. Pietro, il Signore esercitava diritti sul contratto per cui Dioniso Fiore era conduttore della terra de lo chioto de portaver.
Gli spettavano altresì, in Apricale, una stalla o casa , già concessa alla locale Confraternita per ricompensa di alcuni danni materiali subiti.
La Signoria deteneva poi tre frantoi di cui uno detto “l’edificio soprano che ha la sua ruota, latrina e mola con tre botti, una tina con un solo cerchio, due grandi tini per l’ olio, uno più piccolo per trasportare l’ olio” (il secondo era detto edificio mezzano, l’ultimo edificio nuovo).

Dai “Diritti dei Doria” del 1523 si ricavano, in latino qui tradotto, le seguenti rubriche:

“…APRICALE e ISOLABONA
30- La Comunità di Apricale ed Isolabona deve (quanto segue) al Reverendissimo Signore Agostino de Grimaldi Vescovo di Grasse, di Monaco, Dolceacqua e dei restanti luoghi:
31- Dapprima alla festa di S. Lucia deve versare a titolo di omaggio la somma di 45 lire di moneta corrente.
32- Alla Natività di Nostro Signore Gesù Cristo deve dare due montoni giovani.
33- In detta festa i consoli del posto devono donare un allevato di carne ovina.
34- Inoltre detti consoli sian tenuti a versare al reverendissimo Signore 150 uova a titolo di tassazione sugli introiti della loro carica in occasione della festa della Purificazione della Beata Maria, che vien celebrata al 2 od al 7 di Febbraio.
APRICALE e ISOLA
35- Alla Festa di Pasqua le suddette Comunità versino al nominato Signore due capretti.
36- I consoli in detta festività diano pure un allevato di capra.
37- Detti consoli sian tenuti a dare al Signore la quarta parte delle esazioni pecuniarie di condanne, accuse e pene, su cui si estende la loro autorità, di cui il Signore potrà far remissione ai pentiti od a quanti avran saldata la multa secondo la discrezionalità di siffatti consoli sul doversi quietare, esigere, procedere stabilendosi che la quarta parte delle riscossioni coatte spetti al Signore e che gli venga assegnata per mezzo dei consoli a titolo del loro officio.
38- Il Signore avrà inoltre ogni autorità sulla giurisdizione criminale e penale, come si stabilirà con opportuni capitoli e convenzioni.
39- I consoli dei luoghi non possono nè debbono adunare il Parlamento se non per consenso del Signore o di chi per lui tiene il luogo se non fino alla quantità ed al numero del Consiglio di detto luogo sicché costituiscano il consiglio tanti uomini quanti sono i Consiglieri.
40- Altresì predetto Signore alla festa della Purificazione elegga nel luogo di Apricale quattro consoli che abitino colle famiglie nel sito di Apricale e due residenti nel luogo dell’Isola i quali debbano reggere il diritto in siffatti luoghi.
41- Il Reverendissimo Signore ha inoltre la giurisdizione dei mulini ad Apricale ed Isola alla sedicesima ( o sedicesima parte del macinato da pagarsi come decima): tiene in affitto questi mulini, per centocinquanta scudi all’anno, tal Giacomo Cane.
42- Il Signore possiede la Bandita detta Oltrenervia coll’erbatico [tassa da pagare per il pascolo] di buoi e capre, e precisamente dei buoi (pagando) dal numero di tre in su per la ragione di due soldi e mezzo per ogni bue e da due capre in su (pagando) per la ragione di sedici denari a capra a prescindendo dalle prime due. Da dieci capre in su si paghi per detta ragione senza l’esclusione di alcun animale. Non tenendosi bestie in estate poichè come dice la sentenza a riguardo delle bestie da pascolarvi da quindici giorni dopo la festa di S. Michele al I maggio e dal I maggio sin a quindici giorni dopo tal festa, detto erbatico e Bandita spettano alla Comunità come dispone l’atto scritto a sua mano da Luchino Capone, fedefaciente: questa bandita il Signore per quel tempo che è sua ha l’autorità di venderla ogni anno ed a chiunque intenda comprarla, al prezzo convenuto tra questo ed il Signore colle solite servitù. Quelle per cui i compratori sono tenuti a dare al Signore un montone alla festa della Natività e tre forme di formaggio grasso: il prezzo della Bandita vien pagato per metà al giorno del Natale e la restante somma alla fine del mese di aprile, la qual Bandita nell’anno in corso si vendette al prezzo di settantatrè fiorini con le servitù di cui si disse.
43- Il Signore ha inoltre la completa giurisdizione delle acque affinché nessuno edifichi o costruisca mulini o edifici o qualcun altro edificio ad acqua.
44- Il Signore percepisce la dodicesima parte delle olive colle sanse, riservati i diritti delle comunità.
45- Riceve inoltre la decima del vino: precisamente in Apricale un quartino di vino per 20 quartini ed oltre i venti non si paga altro, da dieci a diciannove quartini si paga per dieci, da dieci a cinque si paga per cinque e sotto i cinque sol a rata.
46- La Comunità di Apricale e Isola è tenuta a versare al Signore per le decime del Vescovo venticinque mine, sotto la forma dei due terzi di mistura e un terzo di frumento.
47- Inoltre i pastori di dette bandite di Apricale ed Isola ed i caprari di tali luoghi sian tenuti al pagamento delle decime. I pastori paghino sulla misura di 41 bestie passando verso valle, di cui il nominato Signore ha diritto ai due terzi ed il Rettore della Chiesa al restante, mentre i caprai di detti luoghi di Apricale ed Isola del numero di quaranta capre debbano pagare tre bestie per decime, di cui due al Signore ed una al Rettore per singola sorta [sciorta dial.=gregge], mentre da quaranta in su non debbono versare altro e se il gregge è da quaranta in giù son tenuti per singola sorta.
……………..
55- Nessuna persona accetti lettere monitoriali se non su licenza del Signore o di chi per lui tiene il luogo.
56- Il Signore da chiunque sia riconosciuto spergiuro abbia a titolo di bannalità la somma di sessanta soldi.
57- Lo stesso Signore a riguardo delle bannalità che giungono alla somma di 5 lire abbia e debba avere quattro parti mentre i consoli ne ottengano la quinta parte.
59-Lo stesso reverendissimo Signore nel luogo di Isola annualmente riceva la decima del vino per il reverendissimo Vescovo intemelio, precisamente su dieci metrete ha diritto ad un quartino di vino o mezza metreta, oltre le dieci metrete nulla di più ha diritto di ottenere e nel caso di un quantitativo inferiore alle dieci metrete gli spetta solo un pagamento a rata da uno a dieci.
60- Inoltre il Signore deve al Vescovo suddetto una determinata somma annuale, di cui gli uomini debbono ignorare la consistenza.”.

da Cultura-Barocca

Antichi allevamenti nel ponente ligure

Uno scorcio di Val Nervia

Atti, geografia, ambiente, inducono a credere che, da sempre, la medio-alta val Nervia ebbe nell’oltregiogo il referente per approvvigionamento vaccino e che le aziende piemontesi tenessero sulla costa basi commerciali.
Le indagini hanno chiarito l’espansione territoriale della razza bovino-piemontese: fra XIII e XV sec. uno dei primi approdi dei produttori pedemontani della razza era in Ventimiglia dove gli animali eran commercializzati al porto vecchio del Nervia e soprattutto a quello nuovo del Roia per raggiungere altre destinazioni o essere macellati in loco per alimenti o conservazione. Sull’asse BreglioDolceacqua si son rinvenuti resti fossili che rimandano, secondo l’esame al C. 14, ad un arco cronologico di 20 secoli sì da confortare l’idea d’una via delle mandrie che dai tempi romani si snodava, tra Piemonte di Sud-Ovest e Liguria occidentale, nel fondovalle nervino: l’arco dei ritrovamenti scema, XIV-XV secoli al massimo, a proposito della diramazione da Dolceacqua per Airole e risulta insignificante per media e alta val Roia. L’interesse per questo percorso della transumanza non deve far dimenticare altri itinerari come quello Pigna-Saorgio.
Nel pignasco è un gruppo di case detto Brighetta, presso cui in una carta del 1760 era indicato un La Briga (di deriv.gallica, per “altura”) di Teglia (ligure medievale da tilia = tiglio) ora scomparso: forse Brighetta si connette con Briga Marittima donde, in inverno, i pastori scendevano per Buggio al mare, come risulta da pergamene del ‘300.
I rogiti del notaio di Amandolesio ragguagliano su pastori e mandrie pedemontane che giungevano alla costa per la strada del Nervia.
L’asse Tenda-Ventimiglia fu interessata, il 3-VI-1259, dalla commercializzazione d’una mandria di 575 capi di bestiame tra capre, immaturi e pecore, stipulata in carreria Merçarie della cittadina intemelia.
I contraenti erano Guglielmo Curlo Boveto di Ventimiglia e Guglielmo Ardizzone di Tenda (docc 61-62) ed il primo aveva soprannome di mestiere Bovetus (Boveto poi Boero = mandriano); significativo pare il toponimo Latte, alla confluenza sulla costa della trasversale dalla val Nervia pei siti del Roia e Bevera, ove si rinvennero tracce archeologiche di recinti per animali: nel ‘200 vi stavano diverse famiglie Vache (doc.243), più tardi evolutesi in Vacca cognome di mestiere attestato in tal luogo sin ad oggi [vedi anche sotto voce il De Felice e consulta (p.133, col. 2) il Catasto del territorio di Ventimiglia di metà XVI secolo laddove sono attestati tra i proprietari due esiti cognominali Vacha di personaggi residenti nel quartiere Ollivetto].
Il 2-V-1260 Rainaldo Bulferio Maior vendette a Raimondo Marchisio ed a Pietro Boso, pastori della Briga, 350 capi di immaturi e capre per 105 lire di genovini.
Il 16-V-1260, a Ventimiglia in carreria (doc.246) Rainaldo Bulferio ed i fratelli Oberto ed Ottone Agacie stipularono una soccida [contratto per l’allevamento del bestiame, secondo cui sorge società fra chi dispone il bestiame o soccidante ed il soccidario che lo prende per allevarlo con l’ accordo di dividersi gli utili) per lo sfruttamento di due vacche brune, di proprietà di Rinaldo, a partire dal prossimo carniprivio (domenica di quinquagesima da cui i chierici iniziavano il digiuno dalle carni) e per la durata di 2 anni = è comunque interessante analizzare la partizione che l’ottocentesco Codice di Napoleone il Grande fece del contratto della locazione a soccida].
Atti duecenteschi su pastori di Breglio, Gavi, Pavia, di Briga e Saorgio ma anche Chieri, Moncalieri, Pancalieri provano spostamenti di pedemontani sulla costa ligure sia per commercializzare il bestiame sia per organizzarvi attività mercantili e aziende agricole (Albintimilium cit., cap. II, 8 passim = G.C. GHINAMO, Problemi e prospettive del settore zootecnico da carne nel cuneese: la razza bovino-piemontese, Dissertazione di laurea a.a. 1988-9, Facoltà di Economia e Commercio, Università di Genova-Istituto di Economia e Politica Agraria, 1 copia dattiloscritta).
L’alta e media Val Roia, Tenda, La Briga, Saorgio (oggi: Saorge) e Breglio (attuale Breil) rappresentano un unicum di tragitti su Ventimiglia (v. T. OSSIAN DE NEGRI, Il Ponente Ligustico : incrocio di civiltà, Genova, 1974, p. 39 sgg).
Una carta del ‘700 (Ibidem, figg. 25-6) o Carta Generale del contado di Nizza ed il piano topografico del luogo di Saorgio indica però un’importante strada da Pigna a Castelvittorio e quindi Baiardo mentre dal rio Muratone si stacca una via che, per la displuviale di monte Alto tra Nervia e Barbaira, giunge a Dolceacqua e devia per Airole – Ventimiglia.
Nella carta risalta la planimetria di Saorgio allineato sulla cresta ed in parte sul pendio a precipizio del monte : al fondo fu segnata la Strada grande da Nizza a Torino ed a levante, non lungi dalla basilica di S. Bernardino, si rappresentò la Strada di Pigna: per essa i pastori giunsero sin ai primi del ‘900 ai pascoli d’alta valle del Nervia e da Lago Pigo molti di loro procedevano verso l’agro sanremasco e Triora.

I doc. di XIII-XIV sec. attestano l’esistenza in Ventimiglia di una CORPORAZIONE o “compagna” di macellarii. Il 18-I-1264 Ardizzone “macellario” si dichiarò debitore di Corrado Guarachio per 100 capi di bestiame, vendutigli per 30 lire di genovini, e sancì di saldare il debito entro la festa di S.Michele (di Amandolesio cit., doc. 603). La macellazione in Ventimiglia è documentata in un atto dello stesso notaio (doc.524, del 7-I-1263) quando i coniugi Giovanni Columberio e India si impegnarono a restituire 9 lire e 3 soldi genovini ricevuti in mutuo per acquistare bestie da macello. Dalla zona del Convento di Dolceacqua si raggiungeva Airole per raggiungere il porto sul Roia o l’agro di Ventimiglia. Questi percorsi trasversali, i tratti di edilizia romano-imperiale scoperti dalla Mortola a Latte sin a Bevera (luogo dall’idronimo emblematico per segnalare possibilità di abbeveraggio e dove nel XIII sec. erano insediamenti rurali, casali e stalle) inducono a credere che queste diramazioni fossero ancora più antiche, per il traffico bovino, di quanto affermino i reperti ossei. Secondo le superstiti fonti si può dire che nel ‘200 il traffico di mandrie fosse principalmente innestato sulla strada BreglioDolceacqua, con pascoli, bandite, e ricoveri in successione: dal sito dolceacquino donde si accedeva a Ventimiglia marciando in linea colla strada sì da aggirare a Nervia il castello di Portiloria nell’agro nervino a guardia della via di valle.
Sfruttando le deviazioni per le valli del Roia o del Verbone (Vallecrosia) si giungeva ai prati del Roia (area della stazione ferroviaria, ove si individuarono tracce di un pozzo medioevale), alla piazza per il commercio locale o marittimo del Convento S. Agostino (ove in quel tempo era una cappella di S.Simeone che serviva per il nucleo abitato ai fianchi della Rocca detta di Bastia o Bastita) e poi ai recinti di Latte, sui tratti della superstite via romana di costa, fra area intemelia e frontiera (Turbita, Castellaro il Vecchio, Villafranca, Monaco e Mentone.

Atto importante su transumanza e vantaggi economici procurati alla comunità dagli affitti per pedaggi, pascoli e bandite che i pastori pagavano a Gabellieri e Massari, risulta la convenzione stretta fra le comunità di Castrum de Doy (Castelfranco-Castelvittorio, nell’alta valle) e di Triora, del 13-VII-1280. Identificati i confini territoriali, il notaio Giovanni de Castro, coi deputati dei borghi, precisò nel rogito che “il comune di Triora e gli uomini di detto Castello debbano tenere e possedere in pace ed accordo le terre che son fuori di detti confini ed in esse possano far pascolare le bestie, lavorare, imporre tasse ai foresti, cacciare e fare qualsiasi altra azione pubblica…e che nessuna persona delle due comunità possa dar licenza ad alcun forestiero di pascolare, fermarsi o passare con bestie per tal terra senza l’autorizzazione di entrambe le comunità…”.
Si legge che “i prati degli uomini di Castrum Doy che sono e saranno in Langano, quelli che sono e saranno arati, segnati e disgregati e quelli che avranno voluto tenere arati per dieci anni senza frode siano Bandite dal primo di aprile sin alla metà del mese di Luglio oppure quelli che sieno stati tenuti per fienagione e taglio, una volta che questa sia avvenuta, sino al prato di S. Quirico. E se saran state trovate bestie in detti prati il loro padrone paghi per bannalità soldi cinque di giorno e due di notte se si sarà trattato di bestie piccole (capre, pecore) di numero superiore ed inferiore a dieci, per qualunque bestia grande il padrone pagherà due denari e se saranno buoi e vacche da cinque in più pagherà per bannalità quattro denari per ogni bestia e se sarà un mulo, un giumento od un asino un soldo” ( nel doc. compaiono altre figure giuriduche: dai conciliatori di controversie, uno per comunità, ai pastori servi al titolare della mandria, con elenco delle responsabilità).
Il documento (che il Rossi ricavò da una copia del XVII sec. del comune di Castelvittorio, e che trascrisse nel doc. XV della Storia del Marchesato cit.) non è importante solo per l’indicazione delle pene, degli obblighi dei pastori foresti o per l’indicazione globale che la zootecnia era caratterizzata da caprini ed ovini, bestie piccole, bovini, le bestie grandi, da animali di fatica come asini e muli ma riferisce un dato utile sui collegamenti tra Castelvittorio e Triora per una trasversale che dalla val Nervia procedeva (Nord-Est) verso Triora donde i pastori del taggiasco e del finalese si ritrovavano per procedere verso le bandite d’ alta valle nervina.
Dati zootecnici sull’alta valle si deducono poi dagli Statuti di Pigna del 18-XII-1575: alla rubrica 247 sono i Capitoli estratti dal libro vecchio dei Capitoli del XV sec.: alla 301 sotto la voce Limiti delle Alpi, vennero elencate ben 31 Montagne, destinate a bandite o pubblici pascoli a pagamento.
Si trattava dei monti Gordale, Lausegno, Canon, Pertusio, Aorno, Torraggio, Monte Maggiore, Avino, Ubago di Maria, Arvegno [per Orvegno], Ouri, Morga, Argelato, Bondone, Lonando, Monte Comune, Castagnaterca, Verduno, Veragno, Ubago, Fossarelli, Brassio, Peagne, Tanarde, Passale, Fontane, Preabeco e Giove. La sproporzione fra l’enorme area delle bandite e la popolazione, relativamente bassa, del borgo é prova che i pascoli pubblici ospitavano foresti sia per la transumanza che la commercializzazione delle “bestie” o dei prodotti sulla costa ligure. Come si evince da altri documenti del di Amandolesio l’evoluzione stradale-insediativa in vallata é databile al XII-XIII sec.: le Comunità d’alta e media valle ottennero buoni cespiti dall’affitto delle bandite e per il riparo stagionale di pastori ed animali nei ricetti coperti (terrissi) dai diritti di pedaggio, foraggio ed abbeveraggio delle mandrie.

da Cultura-Barocca

Monaci e pellegrini nell’estremo ponente ligure

Tra luci ed ombre si è ricostruita la DIFFUSIONE DEL CRISTIANESIMO ORIGINARIO NEL PONENTE LIGURE nell’ambito del quale hanno avuto dapprima peso varie esperienze monastiche [anche di natura eremitica ed ascetica orientale] e sviluppatesi su tutto l’arco ligure, senza escludere gli importanti insediamenti anacoretici in grotte e ripari dell’agro intemelio e delle future ville in particolare specialmente (oltre che nell’area di Bordighera) nel complesso della Cima della Crovairola tra Vallecrosia e S. Biagio della Cima: alle origini di questo primo apostolato risiedette, ed il processo durò a lungo sin oltre i tempi di Gregorio Magno, l’esigenza di deprimere la vitalità degli antichi culti idolatri attraverso processi di loro assimilazione nella teologia cristiana o di rovesciamento cultuale.

Dopo queste basilari esperienze religiose la Liguria, come tutta la Cristianità europea, fu caratterizzata dal grande e fondamentale apostolato dei BENEDETTINI cui (prescindendo dal mruolo essenziale avuto nella riscossa cristiana contro i Saraceni) risultarono strettamente legate alcune innovazioni importanti sia nel settore generale dell’agronomia e dell’alimentazione, in contrade prostrate dalle invasioni arabe sia in rapporto allo specifico settore della diffusione e del potenziamento dell’olivicoltura.

Attorno ai conventi, ai monasteri, alle più disparate strutture agricole e insediative benedettine, cosa non sempre citata a sufficienza, si concentrò una popolazione dispersa, ancora sgomenta per le violenze dei Saraceni: proprio dalla relazione di un vescovo genovese apprendiamo questa drammatica condizione di tanta povera gente: anche se i suoi dati si riferiscono all’area di Sanremo e Taggia dove i Benedettini del monastero piemontese di Pedona portarono conforto spirituale e ristoro socio-economico, per semplice linea comparativa oltre che sulla base di altri dati, è facile intendere quale enorme peso la missione benedettina abbia avuto per la ricostruzione del devastato Ponente ligure.
Nel territorio ventimigliese, come si è ricostruito dall’analisi di vari insediamenti monastici contemporanei a quelli delle aree di Taggia e Sanremo, si può anzi giungere alla conclusione che proprio intorno a Case benedettine si sia evoluto il ramificato complesso dei borghi minori e delle ville: meno lentamente di quanto si possa credere la popolazione rurale prese a concentrarsi sotto la protezione spirituale e temporale di questi monaci graditi ai feudatari locali e due caso emblematici, nella loro distinzione, sono quelli del Convento di S. Ampelio a Bordighera (in cui all’originaria esperienza eremitica si sovrappose una chiara matrice benedettina) e quello della chiesa benedettina di S. Pietro in Camporosso presso la quale si concentrarono i primi insediamenti urbani di tal paese della valle del Nervia.

Quando il Monastero di Pedona, a sua volta pesantemente colpito da assalti di Saraceni fu distrutto ed entrò in crisi irreversibile, le sue veci vennero, nel territorio intemelio, recuperate dai BENEDETTINI DI S. PIETRO DI NOVALESA in val Cenischia non lontano da Susa, che, scendendo verso il mare e superando le giogaie montane per la via del Nervia, portarono il loro apostolato nel territorio ventimigliese ed eressero un importante Priorato nell’area di Dolceacqua (il sito oggi detto del “Convento”) da dove irradiarono la loro opera e la loro spiritualità, attirando coloni e sparsi agricoltori che nei pressi del cenobio presero residenza fissa erigendo casolari e dando vita ad una notevole esperienza socio-religiosa di relazione: accanto ai Benedettini, ed alle loro esperienze “riformate”, dei Cluniacensi e dei Cistercensi, tra XI e prima metà del XIII secolo, si affermarono altri importanti ORDINI MONASTICI tra cui però, per l’agro intemelio, il suo entroterra e le sue ville, un ruolo di straordinaria portata, un èò come in tutta Italia, ebbero i FRANCESCANI che raggiunsero presto, per il loro infaticabile operato, grande rinomanza tra i ceti umili e gli abitanti delle ville agricole o marinare.

La genesi della Diocesi di Ventimiglia, per la stessa antichità affonda nelle nebbie del passato ma il suo studio è essenziale per inquadrare la trasformazione dell’antico municipio romano in un nuovo complesso geopolitico laddove la Diocesi, ancor più della Contea e del Comune, finiva per influenzare la delimitazione del territorio e la distinzione, pur all’interno di un solo corpo giurisdizionale e spirituale di Ventimiglia e delle sue ville, specie di quelle orientali destinate ad una grossa evoluzione, e poi ad una tormentata contrapposizione al capoluogo, sin a costituirsi autonomamente sotto il profilo economico, amministrativo e spirituale nella Magnifica Comunità degli Otto Luoghi.

Un momento importante nella storia della Diocesi ventimigliese, in merito alla suddivisione del suo territorio, si fa risalire a poco oltre la metà del 1200 quando i Canonici del Capitolo della Cattedrale (in quella particolare contingenza panitaliana che vide il clero secolare prevalere su alcuni grandi Ordini monastici in decadenza) procedettero ad una RIPARTIZIONE del patrimonio terriero ecclesiastico in 8 prebende.

Il torrente Garavano in questa divisione rappresentava un punto fermo della suddivisione di quel territorio diocesano i cui confini orientali (a differenza appunto di quelli occidentali) risultarono a lungo poco decifrabili e di cui solo in tempi recenti il compianto Nilo Calvini ha fornito un’esauriente identificazione al Ponte della Lissia presso Ospedaletti sì che, secondo tale motivata interpretazione, prima delle revisioni ottocentesche e dell’ampliamento del territorio della cattedra intemelia coll’agro sanremese e vari siti circonvicini, il territorio della diocesi intemelia anche nei tempi più antichi calcava la “giurisdizione ecclesiastica” che in una sua carta del 1752, sulla linea di costa, Panfilo Vinzoni identificò tra il limite occidentale presso Roccabruna e quello orientale segnato, per l’appunto, al ponte della Lissia.
Quest’ultima cittadina, con cui si “chiudeva” la parte orientale della Diocesi intemelia, racchiude nel suo nome una vicenda secolare di organi assistenziali, con terapie anche empiriche contro le grandi malattie dell’epoca, che si svilupparono proprio dal torrente Garavano sino alla medesima Ospedaletti coinvolgendo anche tutto il territorio delle antiche ville intemelie.
La ragione del fiorire di questi organismi assistenziali non era però legato solo a ragioni curative e di ricovero ma anche, se non principalmente, all’esigenza di dare ospitalità sotto un tetto e su dei letti decenti ai tanti viandanti che proprio in quest’epoca percorrevano il territorio ventimigliese.

Il rinnovato, intenso traffico, sia per la pur ardua linea di costa sia per il citato tragitto alpestre di val Nervia [arcaico TRAGITTO di genesi ligure, quasi certamente potenziato dai Romani, che per lungo tempo fu via di comunicazione fra Liguria Occidentale e Basso Piemonte] è citato soprattutto negli atti scritti a metà del ‘200 dal notaio Giovanni Di Amandolesio: esso risiedette in un grandioso fenomeno di espansione del Cristianesimo a scapito dell’ormai rallentato espansionismo islamico.

In un primo momento si ebbe infatti il grande fenomeno delle Crociate che raggiunsero pur provvisoriamente lo scopo di riconquistare alla Cristianità gran parte della Terra Santa e Gerusalemme in particolare: nello stesso tempo, seppur tra il lugubre bagliore dei roghi specie nella dolce PROVENZA dopo la feroce Crociata contro gli Albigesi, andava trionfando l’annosa lotta della Chiesa contro le ERESIE ANTICHE, già temute, coll’emblematico nome di Idra Eretica, quali espressioni di un inganno diabolico ma, in verità, ormai sfiancate da anni di lotte e persecuzioni.

Sulla secolare vicenda si innestò, dopo la vicenda puramente militare, un fervente fenomeno di pellegrinaggi alla volta dei Luoghi Santi della Cristianità

Il notaio di Amandolesio fece cenno ad un fervore di viaggiatori che dal Ponente ligure, ove si radunavano, si imbarcavano su vascelli di vario tipo per fare vela alla volta di Gerusalemme e recarsi alla ricerca dei siti in cui il Cristo predicò la sua dottrina: il di Amandolesio, oltre a ciò, fece spesso riferimento ad una intensità sempre in crescendo del traffico marittimo di merci e persone, che in un piano di generale rinascita dopo gli antichi terrori dei Saraceni, si stava sviluppando nel mare che da Ventimiglia e Ville portava verso Arles e Marsiglia come verso Roma: negli atti il notaio registrò un movimento davvero continuo di imbarcazioni di diversa stazza che sfruttava sia i due porti canale di Ventimiglia, quello antico del Nervia e quello del Roia, ma che si avvaleva anche di imbarcazioni a ridotto pescaggio come i copani per sfruttare dove possibile la navigabilità dei due corsi fluviali, all’epoca di portata molto superiore a quella odierna come hanno dimostrato tanti studi storici e idro-geologici.

A proposito del gran flusso di VIANDANTI e PELLEGRINI è sintomatico che tra i documenti redatti dal di Amandolesio compaia un testamento fatto redigere a metà XIII secolo da tal Ugo Botario che, fra altri lasciti, stabiliva delle somme di denaro da lasciare alle Confraternite dell’Opera del Ponte sia del Nervia che del Roia: si trattava di uno dei vari donativi, registrati dallo stesso notaio, fatti anche da altri testatori a vantaggio di questi due ponti che per essere in legno dovevano annualmente, con spese non indifferenti, essere restaurati dalle Confraternite.
Con lo stesso testamento il Botario lasciava altresì delle somme di denaro per alcuni Ospedali, retti da Confraternite religiose e sparsi per l’agro Ventimigliese tra Garavano e Ospedaletti.
Il denaro, stando a quanto si legge nel documento, sarebbe servito per comprare “sacconi e giacigli per i poveri viandanti”: si intende che gli ospedali oltre che a svolgere funzioni curative per gli ammalati erano anche dei ricoveri ove a pochissimo prezzo erano ospitati i viandanti ed in particolare i pellegrini che giungendo dal Basso Piemonte in particolare, ma anche da altri siti di Liguria, si valevano, come detto, del territorio di Ventimiglia e Ville come di un nodo di partenza verso i luoghi di Terrasanta liberati dalle imprese dei Crociati e da altri cavalieri cristiani tra cui un ruolo importante ebbero i Templari che nell’agro di Ventimiglia e Ville tenevano un loro Ospedale ove ospitavano i pellegrini di fede che spesso scortavano verso i luoghi santi della Cristianità.
Tanto fervore di viaggi e spedizioni, militari e no, era solo parzialmente legato alle Spedizioni in Terrasanta liberata dalle Crociate: in effetti altri porti erano da anteporre a quelli di Ventimiglia e ville per spedizioni in Terrasanta, tuttavia la grande frequentazione del Ponente ligure ad opera di viandanti e pellegrini provenienti dall’Italia ma anche da terre straniere del Settentrione trovava una particolare motivazione in una specifica contingenza di generale riscatto del Cristianesimo che, per le prospettive geografiche del tempo, finì per costituire un fenomeno planetario.
Infatti, dopo aspre campagne di guerra, i Sovrani cattolici della Spagna, secoli prima quasi interamente asservita agli Arabi, con la trionfale vittoria del 1212 a Las Navas de Tolosa, avevano quasi portato a termine la Riconquista cattolica della Penisola iberica relegando i nemici islamici nell’area di Granada donde sarebbero stati cacciati solo nel 1492.
La vittoria cristiana in Spagna fu intesa presto come un’impresa sostenuta dalla potenza divina e il Santuario di Santiago di Compostela, propugnacolo della Riconquista eretto dopo una vittoriosa impresa cristiana, finì per essere ascritto con Roma e la Terrasanta fra i luoghi tradizionali del pellegrinaggio di fede.
Esso raggiunse anzi tanta fama da diventare una meta storica dei viandanti della fede che vi si recavano (o mandavano loro emissari a portarvi qualche ex voto) sfruttando un documento, che divenne celebre ed ambito, il cui nome era, semplicisticamente, Visitandum: si trattava di un’utile guida per raggiungere, attraverso la Gallia, le Spagne e poi spingersi fin all’Atlantico presso cui sorgeva il Santuario
Questo fenomeno spiega la presenza a Ventimiglia di cavalli di buona razza, non destinati alla macellazione ma ad esser commerciati per dar ricambio ai viandanti, ai Santi pellegrini ed a quei bizzarri messaggeri di pietà cristiana che erano i cavalieri della fede a pagamento, veri e propri avventurieri che, per quanti non avessero le forze o mancassero di coraggio, tramite un particolare accordo, spesso redatto su un atto notarile, affrontavano il non facile viaggio per Compostela.
Sull’antica carta erano minuziosamente indicati tutti i luoghi spirituali che si sarebbero incontrati durante il lungo tragitto, spesso fatto per luoghi aspri e popolati di briganti: a partire dalle Gallie come si può notare tuttora sulla Carta del Visitandum erano segnati i 4 tragitti storici per Santiago, elencati partendo da Sud a Settentrione: il I Tragitto era identificato nell’area di Arles donde si recavano molti viandanti che eran giunti da tutta Italia nell’agro ventimigliese prendendo riposo ed ospitalità nei ricoveri ed Ospedali sparsi nei dintorni e di cui, dagli atti notarili, si son recuperati sì diversi nomi ma non tutti certamente, data la rilevanza del fenomeno pellegrino (e senza contare i ricoveri privati non retti da Confratelli ma da semplici cittadini che, dando ospitalità a prezzo più elevato e generalmente a ricchi borghesi od a nobili, si arricchivano in modo non indifferente).

Queste convergenze tra Pellegrinaggi, la rinnovata affermazione del Cristianesimo, l’aumento dei traffici viari e marittimi per contrade relativamente liberate dai predoni e fatte salve da Arabi e Saraceni ebbero un singolare effetto su tutta la Diocesi e l’agro di Ventimiglia dislocati geopoliticamente in un’area fondamentale di passaggi ed itinerari, dove si intrecciavano flussi di viandanti, ove soprattutto si poteva riposare e rifornirsi in previsione di partenze per destinazioni anche molto diverse.

POSTILLA SU CAMPOROSSO:

CAMPUS RUBEUS
originario insediamento rurale di origine romana [ il cui primigenio complesso demico nello straordinario areale topografico della CHIESA DI S.PIETRO ( inevitabilmente soggetta all’influsso delle case monastiche pedemontane e delle loro appendici sino al Convento dolceacquino di N.S. della Mota (Muta) e quindi all’influenza monastica dei Benedettini oltre che della loro vigorosa ripresa dell’agronomia in forza del sistema della Grangia ma anche, dopo la cacciata dei Saraceni del Frassineto e il ricontrollo cristiano dei tragitti, sito strategicamente eccezionale per i “Viaggi e i Pellegrinaggi della Fede” nei diversi Luoghi Santi), in epoche successive dimensionato quale contrata (contrada) = siti tutti, verosimilmente da tempi lontanissimi, raggiungibili per un ponte (guado? romano a pedate di tipo medievale?) sul Nervia imboccata, provenendo da est, una DEVIAZIONE DELLA STRATA ANTIQUA O “STRADA ANTICA” (GIA’ DELLA STRADA ROMANA?) secondo la direttrice delle Braie ] dovette per qualche scelta demografica o rurale esser “scivolato”, per quanto sappiamo dal XIII secolo, nell’attuale logistica.
per agevolare la lettura visualizza qui dalla CARTA NOTARI UN DISCORSO SULLE POSSIBILI TAPPE
DI UNA ANTICA VIA DEI PELLEGRINAGGI A SANTIAGO DI COMPOSTELA seguendo questo tragitto
chiesetta di San Rocco, a Vallecrosia, di San Giacomo di Camporosso, crinale di Ciaixe,” [in questo contesto assume importanza a riguardo di Camporosso qual storico produttore di mandorle la moderna constatazione a riguardo della località Ruge, sotto il vallone di Ciaixe verosimilmente un Castellaro proprio della Civiltà ligure preromana, ove vasta è tuttora la presenza di mandorli, anche inselvatichiti e in pratica divenuti un endemismo] rovine della grangia sottostante i Martinazzi, Santuario delle Virtù, San Rocco presso Bevera, Sant’Antonio sul crinale della valle di Latte e perduta chiesuola di San Gaetano sulla Spiaggia di Latte
[a proposito di questo auspicato approfondimento in merito allo spostamento di Pellegrini di Fede ma anche della conservazione di certi percorsi medievali colpisce questa  ******************CARTA DEL ‘700******************
in cui si indica il recupero di un tragitto con sorprendenti analogie con quello descritto dall’autore di un articolo edito nel sito della Cumpagnia d’i Ventemigliusi sotto la Categoria: TRADIZIONI INTEMELIE (Pubblicato on line: 24 Novembre 2016) specificatamente per quanto concerne le notazioni alla nota 10 (della carta si può vedere qui con integrazione critica
la specificità del superamento, tramite una deviazione, del Nervia, nell’areale di Camporosso
per ulteriori tragitti montani)]

da Cultura-Barocca

Il giovane Giandomenico Cassini

Jean-Dominique Cassini, also known as Giovanni Domenico Cassini or Giandomenico Cassini (June 8, 1625 – September 14, 1712) was an Italian/French mathematician, astronomer, engineer, and astrologer – Fonte: Wikipedia

Angelico Aprosio nella parte inedita de La Biblioteca Aprosiana (Genova, Biblioteca Durazzo, parte II, lettere D-G, Ms. A.III.4) scrisse: “Gio. Domenico Cassini il cui ritratto è quello che tenendo in mano un telescopio per iscoprire gli arcani [del cielo] è quegli che si rimira primo in ordine nella facciata orientale della Libraria. Nacque [nella casa avita della nobile famiglia, secondo la tradizione, appunto il bel CASTELLO MARALDI] in Perinaldo, Castello del Marchesato di Dolceacqua, Diocesi di Ventimiglia, Feudo del marchese Doria. Ancorché l’Abbate Giustiniano non manchi d’usare ogni grande diligenza nelle sue scritture non m’arrischierei di dire che nelli suoi Scrittori Liguri non habbia commesso qualche erroruccio. Dice che egli fusse nato nel MDCXXIIII li IIX giugno: ed io ho dal libro de’ Battezzati di quella Chiesa, se non m’ha ingannato Capitan Giuseppe Cassini un figliuolo del quale ha preso in consorte una sorella del medesimo Cassini li giorni a dietro, che sia nato il MDCXXV il primo di Giugno (sic!, in realtà il 10 Giugno come si legge tuttora nel suddetto libro conservato nell’Archivio Parrocchiale di Perinaldo) alle H(ore) XV. Dice oltracciò che ‘l Padre fusse Jacopo Cassini, e camminiamo d’accordo: ma che la madre si chiamasse Tullia Lovresi non è vero. Si chiama Tulla sì, che vive ancora la buona vecchia, ma Crovesia…”.
Il giovinetto, prima di recarsi a studiare a Genova presso il moderno collegio dei Gesuiti, come scrisse ancora l’Aprosio nel citato manoscritto de la Biblioteca Aprosiana inedita, fu inviato a studiare lettere, in pratica ad apprendere gli stessi rudimenti tecnici dell’arte dello scrivere, presso il Rettore della Parrocchia del vicino borgo di Vallebona: “Gio.Francesco Aprosio, di Vallecrosa, già Rettore della Parochiale di Vallebuona, da cui il Dottore Astronomo Gio. Domenico Cassini succhiò il latte de’ primi rudimenti Grammaticali, Dottore nell’una e l’altra legge, di cui si vede il ritratto alla sinistra di Monsig. Vescovo Promontorio, ed hora frate tra Minori Conventuali, prima di mutar habito donò [alla biblioteca di Ventimiglia] nell’anno MDCLXVI F. Marini Mersenni Ord. Minimorum S.Francisci de Paula Quaestiones Celebrerimae in Genesim…”[ascritto con il Cassini tra i Fautori dell’Aprosiana” (vedi) alla maniera che si legge a p. XXXIX: sesto nome dal basso, tre nomi sotto quello dell’allievo Cassini = il curioso su questo personaggio è che al pari di quello del Cassini nella Quadreria dell’Aprosiana doveva custodirsi il suo ritratto stando che accanto al suo nome nell’Elenco dei “Fautori” registrato nel repertorio biblioteconomico intitolato La Biblioteca Aprosiana..(edito a Bologna nel 1673) compare un asterisco (*): a testimonianza espressa da Aprosio stesso che dei personaggi con nome segnato da asterisco esisteva già dal 1673 il ritratto alla Biblioteca di Ventimiglia; è vero che tra i quadri ritratto sopravvissuti e coneservati un personaggio non è stato identificato e che il suo ritratto è definito “di Anonimo” n. 7, mentre quello del Cassini è il n. 8: ma molti più son stati i quadri andati distrutti, dispersi, trafugati nelle vicissitudini dal XVIII secolo pressoché continue patite dalla Libraria di Ventimiglia = quindi senza opportune ricerche e ritrovamenti è azzardato identificare quell'”Anonimo” – a fronte come scritto di tanti altri ritratti perduti- con l’effigie pittorica del maestro di Cassini].
Cassini grazie al suo genio precoce (e in virtù anche -non senza intercessione di Angelico Aprosio- della fervida protezione dello scienziato e matematico genovese G. B. Baliani che lo volle fanciullo presso di sè al COLLEGIO DEI GESUITI DI GENOVA) percorse le tappe di una rapida carriera accademica: ancora più importanti -anche per le garanzie date dall’Aprosio stesso e dal Baliani) gli furono quindi i favori di un altro personaggio variamente legato all’Aprosio, il patrizio bolognese Cornelio Malvasia presso il quale fece le prime rilevazioni di grande importanza sì da acquisire fama e divenire poi docente di astronomia nell’Università di Bologna, ove tra l’altro, dopo impegnativa PROGETTAZIONE, realizzò la MERIDIANA (o come meglio l’astronomo preferiva dire l'”eliometro”) della BASILICA DI SAN PETRONIO per calcolare l’esattezza dell’equinozio. Divenne quindi direttore dell’osservatorio di Parigi nel 1669, legando il suo nome a grandi scoperte tra cui in campo astronomico il moto di rotazione di Marte e Giove, i quattro satelliti di Saturno (Giapeto scoperto nel 1671, Rea nel 1672, Tetide e Dione nel 1684) e la divisione degli anelli di Saturno dal suo nome detta “Divisione di Cassini”. In campo matematico rivelò una particolare famiglia di curve piane poi nota come “Curva di Cassini”.
Inserita nel complesso dell’edificio comunale sta questa specola che rende possibili delle visualizzazioni del cielo in un’area abbastanza indenne dall’inquinamento atmosferico e da esorbitante illuminazione notturna: nella stessa Casa Comunale merita una visita attenta il Museo Cassiniano come anche ha scritto Anna Cassini nel documentato volume, cui si è in debito per queste note cui si rimanda per qualsiasi approfondimento bio-biliografico: Gio. Domenico Cassini, uno scienziato del Seicento, Perinaldo-Pinerolo [Comune di Perinaldo/ Arti Grafiche Alzani ed.], 1994.

da Cultura-Barocca

Antichi pellegrinaggi tra mare e monti

Da prima della romanità, nel complicato panorama di quegli ANTICHI ITINERARI che gli ingegneri di Roma avrebbero consolidato nel PIANO VIARIO GENERALE cui era sempre sottesa -in Liguria occidentale come in ogni parte del mondo conosciuto- una minore ma vitale RETE DI TRAGITTI ALTERNATIVI, un percorso ligure occidentale MARE-MONTI ha goduto di notevole continuità.
Le tracce di tale continuità si possono riconoscere tuttoggi attraverso un’analisi sul campo che permette il recupero di molteplici messaggi provenienti da epoche diverse.
Il percorso, nella sua continuità, fu già segnato in epoca preromana (e plausibilmente recuperato dalla regione ufficiale di Roma, per la presenza di BASI CULTUALI DI TRADIZIONE CELTO-LIGURE comunque connesse alla SPIRITUALITA’ della cultura ligure di tipo PAGENSE.
Risalendo questo percorso MARE-MONTI, che qualche studioso ha nominato VIA DELLE NEVI ci si imbatte in una continuità di stazioni di religiosità preromana indubbiamente collegate tra loro sia per via geografica sia -e questo soprattutto è importante- per evidenti affinità elettive.

Tracce archeologiche e toponomastiche di forme devozionali pagane si trovano a DOLCEACQUA (località SAN BERNARDO e SITO DI DOLCEACQUA DEL CASTELLO O BORGO ANTICO O “TERA” , sempre in VAL NERVIA presso il paese di ISOLABONA (ANTICA SORGENTE “GONTERI”) ed ancora in alta Valle, procedendo verso i gioghi da cui si accede al Piemonte, nel territorio tra i borghi di PIGNA e di CASTELVITTORIO ove si incontra una sorgente termale sicuramente frequentata in epoca arcaica e probabilmente rivisitata dai Romani: la FONTE DI LAGO PIGO.

Superata la barriera montana ed entrati in territorio pedemontano [operazione resa possibile dopo aver raggiunto su una direttrice viaria che proviene da BAIARDO paese con REPERTI ARCHEOLOGICI LIGURI PREROMANI DA CORRELARE AD ALTRI SCOPERTI NEL TERRITORIO DI DOLCEACQUA e dalle indubbie consonanze culturalie folkloriche di ASCENDENZA CELTO-LIGURE] si raggiunge un’importante base viaria nei pressi di BRIGA MARITTIMA: si tratta della importante stazione termale della CHIESA DI N.S. DI FONTAN dove le tracce di una base celto-ligure si intrecciano coi reperti di una stazione termale romana studiata da Padre Avena Benoit.

A prescindere che per tutto il tragitto MARE-MONTI DI VAL NERVIA, toponomasticamente ricorre -soprattutto per indicare monti ed alture- il nome del dio ligure *BELEN/BELENO, risulta interessante notare come al termine del lungo percorso, nell’agro di SUSA, si raggiunga alfine la NOVALESA -ove tra il corso del CENISCHIA e l’altura del ROCCIAMELONE [secondo le antiche CRONACHE sede ancora nel medioevo di PROCESSIONEI PAGANE DI ORDINE CELTICO] sono state recentemente individuate tracce di un antichissimo ANTICHISSIMO CULTO DELLE ACQUE (analogo a quello riscontrato nell’alta val Nervia nel sito di LAGO PIGO) mentre, proseguendo nel cammino, si raggiunge il borgo di FORESTO, nei cui pressi – e specificatamente nell’ORRIDO DI FORESTO – la leggenda cristiana, elaborando negativamente antiche credenze pagane preromane sviluppò il tema (vittoriosamente combattuto da ELDRADO ABATE DI NOVALESA (e quindi dalla tradizione apostolica dei BENEDETTINI) di un DRAGO DEMONIACO NASCOSTO NELLE ACQUE E CARNEFICE DEI VIANDANTI, POI UCCISO DA SAN MARTINO [fenomeno totalmente analogo a quello riscontrato nella cerchia delle Alpi liguri per quanto concerne l’emblematica montagna del TORAGGIO e la FONTE DEL DRAGO presso cui i BENEDETTINI avrebbero condotto e vinto una loro “storica battaglia” contro la SOPRAVVIVENZA DI CULTI PAGANI PREROMANI.


Tra i molti significati conferibili al “Pellegrinaggio di fede” si deve, anche attribuire, la VALENZA GEOPOLITICA di “strumento straordinario” per recuperare i TRAGITTI STORICI DELLA CIVILTA’.
Per riprenderne il “possesso” -secondo il gigantesco disegno inaugurato da GREGORIO MAGNO- cioè per riconquistare alla CRISTIANITA’ il complesso della geografia romana del mercato aperto e degli scambi, e quindi della pace e della prosperità, era necessario operare nel segno di una comunità di intenti, ridare cioè quei percorsi ad una CRISTIANITA’ UNITA .
La capillare lotta alle varie manifestazioni del DEMONIO – che contraddistinse dapprima i Benedettini per divenire retaggio dei Pellegrinaggi di fede- fu il mezzo fondamentale con cui si ottenne una assoluta quanto necessaria COMPATTEZZA ED UNIFORMITA’ DEL CRISTIANESIMO su aree geografiche smisurate, senza che si proponessero -sotto la spinta ideologica di antiche fede – DEVIANZE ERETICALI o MANIFESTAZIONI SCISMATICHE SCATENATE DALL’ISOLAMENTO GEOGRAFICO.
Ancora la Via Mare – Monti di Val Nervia nel Ponente ligure pare la cartina tornasole di questo schema operativo.
Prima ancora che i “Pellegrinaggi di fede” divenissero una gigantesca manifestazione del mondo cristiano, questo importante percorso -faticosamente riunito dall’apostolato dei Benedettini, era stato devastato dalle incursioni dei Saraceni sì che la gente, che da poco si era trovata riunita dall’operato prevalentemente della Chiesa, era nuovamente disunita dalle distruzioni.
Dopo la vittoria cristiana non pare affatto un caso che addirittura un VESCOVO DI VENTIMIGLIA abbia RICONSACRATO il tragitto VENTIMIGLIA – NOVALESA.


Popoli uniti da una fede sincera e compatta si sarebbero realmente sentiti SIMILI nonostante le grandi distanze che li separavano proprio su quella via: la lotta, comunemente, a fianco di Feudatari e Chiesa, combattuta contro i Saraceni li aveva riunificati nel nome del Cristo ma per non rendere vano quell’episodio (che nell’ottica religiosa del tempo era stata una lotta contro la negazione stessa del cristianesimo e quindi una lotta contro il “male”) non si doveva in alcun modo più tralasciare l’eterno duello contro gli inganni del MALIGNO che nelle sue molteplici manifestazioni (e quella dei “Saraceni” sarebbe stata solo una fra tante) mirava, e nei tempi sempre avrebbe mirato, all’unico modo di trionfare sulla Cristianità, con l’inganno più antico, quella di dividerla e farla divorare dagli scismi, gli errori che portano alla dannazione in cielo ed all’odio in terra.
E sotto questa prospettiva geopolitica davvero il PELLEGRINAGGIO, più che per le pur straordinarie mete cui era indirizzato, aveva enorme importanza per quel flusso continuo di fedeli, per quella marea di gente di terre lontanissime che, al di là delle etnie, degli usi e dei costumi, si sentiva unita nel nome delle fede cristiana e che, in nome di questa fede, aveva preso POSSESSO CONTINUATIVO DEGLI ANTICHI PERCORSI, rendendoli sicuri non solo alla Cristianità ma a tutto il futuro sviluppo del “Mondo Civile” ormai in rinascita.

da Cultura-Barocca