Lo scomparso mosaico delle quattro stagioni di Albintimilium

“Eccole intanto la notizia del mosaico e la sua descrizione che comparve sull’Osservatore del Varo di Nizza. Mentre nel gennaio dell’anno 1852 i coloni della valle episcopale di Nervia [zona di levante di Ventimiglia (IM)] stavano scavando alcuni fossi a fine di piantarvi dei magliuoli, incontrata un’insolita resistenza s’avvidero d’aver sotto i piedi uno stupendo pavimento a mosaico.

Sgombrato tosto l’alto strato di arena che lo tenea ricoperto, si trovò circondato di mura non più alte di un metro, da tre lati delle quali apparivano i vani di tre porte, presentandosi il mosaico chiuso dentro un rettangolo della lunghezza di tre metri e settanta centimetri, e della larghezza di due e cinquanta.
Incominciava esso con una lista di lapillo nero di 1/100 di larghezza seguita da una fascia bianca di lapillo larga 5/100. Seguivane una seconda nera che veniva a contornare un fregio composto di tutti triangoli isosceli di lapillo nero in fondo bianco, toccando il vertice del primo triangolo la base al mezzo del secondo volto per lungo. Una terza lista girava in varii sensi disegnando l’ opera tutta in differenti quadri quadrilunghi della larghezza di 25/100 entro ai quali in mezzo a due piccole liste bianche girava attorno un rabesco, specie di treccia, con piccole zone ripetutamente colorate di bianco, celeste e giallo di bella e dolce armonia , e in mezzo di questo in fondo bianco vi era una specie di rosone pur di varie tinte, cioè di nero, bianco, rosso, celeste, giallo e cinerino saggiamente combiniti. Nel mezzo del grande spartito veniva disegnata uua stella di 47/100 di diametro con otto rombi, composti di liste bianche in fondo nero, dal centro della quale si partivano otto raggi o liste nere, dalla direzione delle quali restava divisa tutta l’opera, con una regolarità singolare; ad una certa egual distanza da questa stella ve ne erano altre otto, in tutto consimili, che poggiando i loro centri sui lati di un quadro perfetto si volgevano tre per tre intorno alla medesima. Nei differenti riquadri che nascono dal maraviglioso gioco di queste stelle, ve no sono quattro maggiori , larghi 52/100. In mezzo dei lati del quadrato in senso opposto vi sono a contatto altri piccoli quadrati di 24/100 per lato, e nei due di fianco vi è disegnato a piccole zone colorite di giallo scuro, celeste, grigio e nero in fondo bianco il così detto nodo gordiano.
Ad ognuno poi dei quadrati maggiori in mezzo a due liste bianche gira all’intorno un rabesco colorito, specie di treccia, simile in tutto a quel di sopra narrato. E in mezzo a ciascuno di questi quadrati dopo il rabesco, entro una lista nera, vi è un quadrato ove in fondo bianco viene mirabilmente effigiato in minutissimo lapillo un busto rappresentante per ordine le quattro stagioni.
L’Inverno tien rivolta la tosta in un drappo celeste che con bel garbo gli discende dal lato sinistro a ricoprire il collo e il petto, e dalle spalle esce in alto una specie di palma o alga, quasi indicando che egli non è privo di vegetazione.
Si trova nel secondo quadretto la Primavera e come stagion de’ fiori amica è inghirlandata di fiori di diverse specie e colori; un largo nastro rosso lacca le discende scherzosamente fra l’omero e il petto.
Segue nell’altro quadrato opposto l’Estate voltata alquanto verso il centro con varii mazzetti di spighe in testa, per lo più gialli; v’ha qualche spiga verde con qualche fioretto roseo, specie di papavero campestre, che artisticamente rompe quella monotonia gialliccia. Due nastri similmente le discendono dietro all’occipite verso le spalle e sono di un roseo che tira all’arancio.
Viene per ultimo l’Autunno, giovane figura rubiconda e maschile, coronata di fiori rossi e verdastri con foglie verdi e gialliccie, ove si potrebbe ravvisare ancora qualche ramoscello di uva.
Ch’ il crederebbe! di così peregrino capo lavoro d’arte non resta più che un solo quadro incastonato in un muro dell’atrio del palazzo vescovile a Latte.

Nè migliore sorte toccava ad un secondo pavimento pure a mosaico, scoperto nell’Ottobre dello stesso anno in un terreno attiguo, il quale rappresentava Arìone seduto sopra un delfino, simile in gran parte a quello riferito dal Furietti, e scoperto nello scorso secolo in Roma presso porta Capena. Si è appunto fra le macerie che stavano intorno a questo mosaico, che si trovò il frammento d’iscrizione dicente :
DEDICAT-A-T-Q-E-P-
Spero di farle tenere fra non molto una più estesa narrazione di tutte le anticaglie, oggetti d’arte ed iscrizioni, da due secoli in qua dissotterrati in quella pianura.
Di Ventimiglia 27 Febbraio 1873.
Girolamo Rossi”
[Un antico mosaico a Ventimiglia. Lettera al ch. professore Teodoro Mommsen in “III – MONUMENTI” del “BOLLETTINO DELL’ ISTITUTO DI CORRISPONDENZA ARCHEOLOGICA PER L’ANNO 1873” – ROMA, COI TIPI DEL SALVIUCCI, Piazza SS. XII Apostoli, 50 1873 – N.° I. – II di Gennaio e Febbraio 1873, pp. 26 – 29]

da Cultura-Barocca

Una “Dedica a Esculapio” a Ventimiglia

A Ventimiglia (IM) fu trovata anche una “Dedica a Esculapio” (notoriamente venerato come dio guaritore in tanti Santuari di cui, nell’ecumene romana dopo quello matrice e celeberrimo di Epidauro, fu famosissimo in Italia, tra altri, quello a Roma dell'”Isola Tiberina” ) [registrata dai Suppl. Ital. 10 (1992) p. 112, n. 1 (AE 1992, 659)] di cui non è nota l’esatta provenienza (mentre la datazione è posta alla II metà del I secolo dopo Cristo = misure cm. 27×39,5×24).

Il fatto che la dedica sia stato ottenuta valendosi della bella e locale pietra della Turbia come molto altro materiale della città romana (ad esempio il Teatro), induce a credere che il manufatto sia stato realizzato da un’officina locale (o comunque tipica dell’areale) di lapicidi e che di conseguenza ( senza rientrare tra quelle epigrafi spurie giuntevi nell’abbastanza caotica epoca degli scavi su grande scala di G. Rossi di cui a suo tempo dopo lunghe ricerche fece menzione Giovanni Mennella) tale dedica risulti assolutamente genuina = in merito dello stesso Mennella vedi anche le osservazioni sul ritrovamento entro l’articolo Aesculapius a Ventimiglia, in Religio Deorum in ” Actas del coloquio Internacional de Epigrafia ‘Culto y Sociedad en Occidente, Tarragona, 6-8 X 1989″, Sabadell 1992, pp. 357-361.

Il frammento è incompleto e molto consunto ma tuttora leggibile = Aescula[pio] / Q(uintus) Dillius Iep[- – -] / telus v(otum) s(olvit) l(ibens) [l(aetus) m(erito)] da interpretarsi come “Qunto Dillio Iep…, fa sciolto il voto a Esculapio volentieri e lieto per il merito”.

Verosimilmente parimenti ad altra lapide (ma giova precisarlo non l’unico reperto romano ivi rinvenuto di epoca romana) con cui pressoché similmente si scioglieva ad Apollo (che tra i suoi tanti attributi ebbe anche quello del dio delle guargioni) un voto e che fu rinvenuta presso la chiesa prebendale di S. Vincenzo (in seguito non casualmente cointestata come qui si legge pure a S. Rocco protettore contro le epidemie e taumaturgo dalla fama inferiore forse solo a S. Bartolomeo il Santo una cui chiesa ab antiquo andò a sovrapporsi nell’Isola Tiberina al Santuario di Esculapio) doveva recare sulla cuspide una statuetta votiva asportata per lucro ma anche i processi di destabilizzazione cristiana delle divinità pagane: con necessaria sintesi la scheda dei Suppl. Ital. si limita ad alcune considerazioni sul culto del dio guaritore Esculapio, culto proveniente dalla Tessaglia, ma introdotto a Roma già dal III secolo avanti Cristo. L’estensore della notazione epigrafica non senza motivazioni, accennando alla limitata diffusione di tale culto a siffatta divinità nell’areale dell’Italia Nord-Occidentale, ipotizza ad una possibile influsso per tale manufatto alla presenza di militi di ambiente illirico-balcanico, documentati a Cemenelum presso l’odierna Nizza.

Però qualche ulteriore constatazione, e tenendo conto che rinvenimenti impensati talora suffragano ipotesi ritenute vacue, è da farsi: e questo ha a che vedere con la presenza di Luci o Boschi Sacri e Monti Sacri e Sorgenti ed Acque Lustrali magari a a valenza terapeutica influenzanti ritorni cultuali sincretizzati come, per esempio, nel caso dei Santuari della Tregua con viciniori testimonianze archeologiche, sia per la valle del Nervia quanto per l’areale corrente da Vallecrosia a Bordighera ed ancora nella così detta area delle “Diano” caratterizzate dal Lucus Bormani. Contro certi luoghi comuni e divulgativi è da dire che come scrisse il geografo greco Strabone il municipio imperiale di Albintimilium di cui il nucleo demico principale di quella che oggi si dice “Ventimiglia Romana” aveva l’aspetto in forza delle aree suburbane di una “grande città”.
La storia lunga, fiorente ma anche tormentata di Albintimilium, il cui nucleo demico base sorse in prossimità del grande torrente o fiume, il Nervia, che diede nome all’area ove si rinvennero i monumenti principali della romanità finì seppur con gradualità e misurata lentezza con il susseguirsi delle le invasioni barbariche: soprattutto con l’invasione dei Longobardi e la conseguenza che le aree costiere vennero via via abbandonate a vantaggio dei centri d’altura e dei borghi vallivi

da Cultura-Barocca

La vita quotidiana ad Albintimilium

Ventimiglia (IM) – scavi delle Terme di Albintimilium

Ventimiglia (IM) romana [Albintimilium] era punto d’incontro, sistema dove interagivano vari meccanismi commerciali.

L’incremento demografico e l’aumento di benessere sono da connettere, tra I e III secolo d.C., al suo ruolo di nodo viario commerciale.
E’ quindi evidente che, pur contro il giudizio dei benpensanti, vi si radunassero persone di dubbia reputazione, affaristi e cambiavalute, che vi soggiornassero mulattieri e sgualdrine.
L’economia della città ruotò su questo sistema di scambi e, viceversa, la città entrò in crisi nel IV secolo d.C., perchè, a parte i saccheggi veri o presunti, nell’economia generale dell’Impero, coll’arresto di molte iniziative commerciali, essa perse parecchi dei suoi ruoli antichi e non le giungeva più la linfa vitale di un discutibile brulicare di umanità impiegata nel settore economico o comunque legata, anche in modo parassitario, a tale organismo, portatore di un benessere che le era negato dalla terra, da un mare non ricchissimo, dall’assenza di grosse imprese locali: il porto e la via Julia Augusta segnarono i destini di Ventimiglia, nel bene quanto nel male (V.R.2, intr., passim e pp. 90-101).

In epoca romana i traffici erano assai più intensi, sia per l’economia aperta sia per la peculiare posizione frontaliera, sotto la veste portuale e viaria, del municipio di Albintimilium.

Il nodo principale del traffico era verisimilmente alla Mansio di Lumo o Lumone, segnata dall’Itinerario Antonino a X miglia dalla città nervina ed identificata dal Lamboglia in resti murari d’epoca romana ritrovati nella zona di Cap Martin, su una linea longitudinale dove si ebbero reiterate scoperte di monete di via d’epoca imperiale ma di tempi diversi: segni non vaghi di un lungo traffico stradale.
Era forse questo il luogo dove si pagava la dogana di passaggio dall’Italia alla Gallia, ma, a prescindere dal dettaglio, e certo che tutti questi siti furono coinvolti da un cospicuo passaggio di trasportatori ed operatori commerciali.

Nel centro urbano di Nervia il porto convogliava un ulteriore movimento di prodotti, i quali solo parzialmente si vendevano in area municipale, ma venivano variamente smistati, secondo la provenienza, verso le Gallie, l’Italia centrale o subpadana.

Un’autentica marea di commercianti, di esportatori ed importatori, soprattutto di conduttori di veicoli e di marinai, doveva necessariamente usufruire di ospizi ove fermarsi, di uffici dove contrattare e di spacci ove rifornirsi.

Secondo la Lex Iulia Municipalis (C.I.L., I, 206 = DESSAU, 6085) era vietato di giorno il traffico dei cocchi ma non quello dei carri pesanti che portassero materiale per la costruzione dei templi o di opere pubbliche; così mentre i plaustra da trasporto, carichi di sale e varia merce, si spostavano di notte, i muli carichi e i facchini, con le loro gerle pesanti, si muovevano in una frenetica attiviàa quasi diuturna.
Come scrive U. E. Paoli, nella romanità si ebbe un notevole rispetto legale del traffico pedonale ma, concentrando il grande movimento commerciale nelle ore notturne, si ottenne il risultato che i carri pesanti ingombravano di giorno le strade, mentre i conduttori trovavano precari tipi di ospitalità.
Poi, di notte, una variegata umanità, composta anche di avventurieri, si rimetteva in viaggio, con gran fretta, per arrivare presto ai porti o ai centri di smistamento delle merci, magari con una pausa brevissima in qualche pubblico locale, come quelle taverne, le popinae, che restavano aperte pure di notte.

Nella città nervina di Albintimilium si riconosce tuttora qualche traccia di tale pubblica attività, di una civiltà come quella romana che, a differenza della medievale, non conosceva le grosse pause della notte.

Verso il I secolo d.C. un Publio Nonio Primo, su un marmo cinerognolo di forma poligonale, fece incidere dal lapicida una frase emblematica: ” Passaggio e proibito, se non con il consenso del proprietario Publio Nonio Primo”.
Quella lapide, più tardi destinata ad essere riutilizzata, sul retro, per la citazione funebre della piccola Maia Paterna, era verisimilmente posta all’ingresso di qualche via privata, forse su una casa o su qualche struttura portante. Fu collocata quale espressione di proprietà e divieto, ma le sue caratteristiche sono importanti: si comunica per iscritto in un ambiente ad alto tasso di alfabetizzazione e si collocano divieti d’accesso, a proprietà private, quando esiste un traffico abbastanza elevato, che può non rispettare le pubbliche normative.
Tra gli amministratori del municipio di Albintimilium esistevano gli “edili” che, come forza di controllo sul traffico, sui mercati, sul pronto intervento per pubbliche calamità e incendi in particolare, si valevano, anche a proprie spese, dei “vigili”: questi erano probabilmente sempre insufficienti e così le famiglie piu agiate provvedevano a proprie spese e con propri servi alla tutela delle loro proprietà.

Il tempo ha cancellato ogni ricordo di Publio Nonio Primo, ma il personaggio doveva essere stato di rilievo sociale.
Per vaghe consonanze, può essere avvicinato a nomi celebri, di uomini che vissero in una città immensa quale Roma e che, se non lasciarono lapidi marmoree di divieto, per le loro doti artistiche seppero comunicare, poeticamente, il “dramma”, vissuto da tutti, di un traffico notturno fastidioso, di opprimenti e illeciti parcheggi diurni dei grossi veicoli, di agitati e prepotenti conduttori di carri: si tratta di Marziale (XII, 57), del più antico Orazio (Epist., II, 2, 79), di Giovenale (8, 158 sgg.).
Questi e altri poeti, a differenza di Nonio Primo e delle numerose vittime dell’incultura cittadina, ebbero pure l’arguzia di ricordare ai posteri il lato oscuro della societa del benessere: dal codazzo di accattoni, al seguito dei traffici commerciali, senza mezzi per pagarsi un moderno ricovero e capaci di ripararsi in ogni luogo, senza rispetto degli altrui diritti (GIOVENALE, 5, 8), agli angiporti che comportavano, come ora, un insieme di illegali bische e precarie taverne, le quali incentivavano al libertinaggio (CATULLO, 58, 4-5; PROPERZIO, IV, 7, 19-20), ai giovinastri che approfittavano dei fermenti notturni per concedersi ad eccessi, imperdonabili di giorno (ORAZIO, Od., I, 17, 25-28), fino all’attuale deprecabile abitudine di abbandonare sulla pubblica strada cani latranti (ORAZIO, Epist., II, 2, 75).

La città nervina aveva un porto di rilievo e un angiporto di cui si sono purtroppo perse le tracce: l’attività commerciale collegata allo scalo comportava la presenza di un sistema di magazzini, di aziende, sedi di corporazioni, che non poteva prescindere da tre apparati integrativi, quali la redazione di contratti, la contabilita ed un sistema postale.

Nella città nervina, a testimonianza di un elevato tenore esistenziale dei ceti abbienti, che nei momenti migliori ricalcarono i costumi stessi della nobiltà di Roma, tra il corredo funerario, che Lucius Afranius Maritimus volle per il figlio Severo, si rinvenne “un calamaio, composto di tre cilindri metallici, i quali come appare dalle saldature, erano riuniti; i due più ampi, eguali fra loro e interamente aperti, pare fossero destinati a dare ricetto ai calamai, il terzo cilindro, alquanto più piccolo ma munito di coperchio a forma di cono, serba ancora i resti dell'”atramentum” (inchiostro nero) ed e perfettamente simile a quel disegno, che ne dà il Rich al vocabolo arundo o penna da scrivere.
Afranio Severo, che morì a 14 anni, pote servirsi poco di questo oggetto prezioso, ricco anche per l’inchiostro di ottima qualità, “di fuliggine di resina o pece, feccia di vino o nero di seppia”: gli appunti e le quietanze dei funzionari commerciali e portuali erano però scritte su tavolette cerate (cerae) legate, in una sorta di archiviazione, con un cordoncino passante tra i fori praticati nell’orlo, prendendo il nome di duplices, triplices o quinquiplices, a seconda delle diverse tavole di legno utilizzate.

La costruzione delle CASE ROMANE esigeva la fabbricazione di travi, cui attendevano i fabri tignarii.
Nei negozi (tabernae) scoperti nella domus del Cavalcavia a Nervia si sono individuate tracce di un soppalco ligneo e restano visibili nella casa i segni dei cardini di una porta, dello stesso materiale, a tre ante.
In tale edificio un vano conteneva una scala, che portava ai piani superiori e al tetto: le intelaiature di questo erano legnee, con la falda delle tabernae e del vestibolo inclinata verso l’esterno (V.R.2, pp 94-95).
Di LEGNO erano naturalmente i mobili e i letti; i residenti del municipio di Albintimilium per il rifornimento di materiale potevano accedere, come detto, a un vasto patrimonio boschivo: in particolare di abeti, castagni, faggi, pini e di buon larice.
Tale albero era così fiiorente in queste regioni che, secondo l’Alessio, dette il nome alle isole Lerine di fronte a Cannes (oggi Ile de Saint Marguerete e de Saint Honorat) cioe Lero (STRAB., IV, 185) e Lerina (PLIN., N.h., III, 79): fenomeno ricordato anche da DIOSCORIDE (I, 71) e in senso più lato da VITRUVIO (II, 9, 14-16).
Le aree migliori di approvvigionamento erano probabilmente nell’alta e media val Nervia, al Giunco di Perinaldo, forse ad Cagalupum (dove il 15 gennaio 1260 il notaio di Amandolesio indicò una via antiqua, alla Pineta di Vallebona e ai boschi di abeti di Passalovo (o Passalupo) e del “Montenero” di Bordighera.
Come scrive il Paoli, nella mensa signorile la tavola (orbis) risultava di pregiato legno di importazione (il più prezioso era la thuia = citrus, un albero della famiglia del cipresso proprio del Marocco) ma il sostegno centrale (trapezophorus) era in genere di metallo od avorio: la tavola circondata dai letti dei triclini, in muratura e coperti di cuscini, veniva fatta invece, perlopiù, con marmo o pietra e di rado si sono trovati reperti lignei di questa.
Panche, cassettoni ed armadi, simili ai nostri, erano in legno e così pure le casseforti o arcae, adeguatamente rinforzate con borchie, barre di bronzo e vari congegni a chiave.
La casa romana non era provvista di arredamento come quella moderna (per esempio la biblioteca si ricavava entro scomparti murari di un apposito locale = bibliotheca) ma quella signorile aveva i letti: triclinari, letti bassi a divano (lectus locubratorius) e il letto per dormire ( lectus cubicularis).
Questo era fatto di un telaio di legno rettangolare ( sponda), sostenuto da 4 o 6 piedi, con una spalliera (pluteus), volta alla parete, e un sostegno nel lato anteriore (fulerum).
Nelle varianti sontuose, il legno a volte era incrostato di avorio, tartaruga od oro: la sponda veniva coperta da fasce tese che davano elasticita (instintae, fasciae, lora) ai materassi sovrapposti (torus, culcita).
Su questi si stendevano le coperte (stramenta, stragula, peristomata) e poi la toral o plagula, fine copertura di lino.

Nelle INSULAE (in pratica “case condominiali o da affitto a più piani) i ceti meno abbienti usufruivano di un parco arredo nel quale il legno, di qualità comune, preponderava in modo assoluto, come un’anticipazione storica della civiltà medievale del legname.
Il letto ligneo (grabatus, scimpodium) era semplice e la mensa tripes era una modesta tavola di legno locale, citata con ironia da Orazio (Sat., I, 3, 13) e da Marziale (XII, 32, 11).
Negli appartamenti la sedia usuale (ben diversa dalla raffinata sella , con bracciuoli ma senza spalliera, o dalla cathedra , con spalliera lunga ed arcuata) era uno sgabello ( scamnum, subsellium ) privo, come tutti i sedili romani, di imbottitura fissa e talora provvisto di semplici cuscini.
L’arredamento nelle case popolari della città nervina di Albintimilium si ispirava a questi criteri…

da Cultura-Barocca

Gocce di nostalgia = Ventimiglia, un liceo scientifico che doveva esser intitolato ad Einstein e che invece prese il nome di Angelico Aprosio

Grosso modo 50 anni fa (cinquanta e più anni fa!…che nostalgia…anche per la giovane età, essendo commissario interno, il Presidente di Commissione Giuseppe Bestagno alla riunione preliminare mi scambiò per un allievo in qualche modo intrufolatosi!), in un tiepido autunno del 1975, il Liceo Scientifico di Ventimiglia (IM), già semplice sezione staccata del grande Vieusseux di Imperia, divenuto autonomo, ottenne la sua attuale nominazione: già v’era il suo primo preside l’italianista Prof. Oreste Allavena, che mi fu insegnante al liceo classico Rossi di Ventimiglia, ed un segretario, il bravo e compianto poeta dialettale Giannino Orengo che assunse la carica amministrativa ufficiale avendo come collaboratore il buon Squizzato, che già v’era e che in un certo modo, anche per la costante disponibilità, era diventato “leggenda”.

La scuola non era nell’attuale prestigiosa sede, ma qui come sopra si vede e si intuisce in una foto di molti anni prima = stava, come si soleva dire, e non senza una casuale ironia, “sopra il Mercato dei Pesci” (al terminale occidentale dell’allora fiorente Mercato dei Fiori) che, in forza della logistica, occupava il piano terra. I locali della scuola, cui si accedeva da un portale non visibile nell’immagine proposta, ospitarono dapprima un’altra sezione staccata, quella dell'”Istituto per Ragionieri”, a sua volta sede staccata del Colombo di Sanremo, ma destinato, per il rapido incremento degli allievi, ad ottenere una sua vera e propria nuova sede al Centro Studi di Ventimiglia: contestualmente, man mano che la “Ragioneria” si staccava da questa sede per la nuova, i locali pervennero allo “scientifico” ancora anonimo: ricordo bene tutti, allievi e colleghi, compreso l’anziano preside Lonardi, uomo sofisticato e colto, dal modo di fare ottocentesco.

Ero giovanissimo quanto fortunato, dati anche i tempi, mai avendo conosciuto il vero e proprio precariato…ed avevo già un buon rapporto con l’ambiente: in quel giorno d’autunno del 1975 si doveva, ad opera del Collegio dei Docenti, decidere il nome da conferire alla nuova scuola di Ventimiglia…io, in verità, non avevo preferenze ma altri sì e, forse non a torto, si cercava un nome in relazione al corso di studi, quindi il nome di un “patrono laico, per così dire scientifico“. Sarebbe stato quasi naturale scegliere quello del grande astronomo Cassini, ma esistevano in zona già altre scuole prestigiose! Si sparse quindi la voce di conferire alla scuola la titolazione “Einstein” ed i più, tra i colleghi, erano concordi su ciò: anche per me andava benissimo intitolare l’Istituto al grande fisico e matematico tedesco!

Ma a quel giorno di decisioni da prendere faceva già da contraltare una piccola quanto curiosa “preistoria”!
Il Preside Allavena (cultore e studioso di storia locale oltre che, al tempo, acclarato e premiato studioso di Pirandello e Leopardi = si vedano le sue opere sul catalogo del Servizio Biblioteconomico Nazionale) giorni prima mi aveva convocato nel suo ufficio e mi aveva detto:”…ho visto che ti sei laureato a Genova con una tesi su Ventimiglia Romana, ma che hai anche dato esami con Franco Croce Bermondi, illustre studioso del Marino e di conseguenza del nostro ventimigliese Aprosio, che partecipò alla polemica Stigliani-Marino….”. Non seppi sul momento dove volesse andare a parare: era vero quanto da lui detto ma io mi ero laureato con una tesi su “Ventimiglia Romana”!. Obbiettai con siffatta considerazione e sul fatto che, seppur languidamente, frequentavo ancora il “Perfezionamento post laurea in Storia Romana“. La mia risposta era però caduta nel vuoto ed il Preside continuò con qualche considerazione su cui doveva aver riflettuto: “….Se hai studiato sui ‘Tre momenti del Barocco Italiano’ del Croce Bermondi, sul Marino e sullo Stigliani avrai per forza letto anche di Aprosio e della sua partecipazione alla disputa…e qualche cosa, se ti conosco, pur avrai approfondito“. Risposì di sì, aggiungendo comunque che Aprosio era descritto in maniera sostanzialmente negativa dal celebre docente universitario: qual stanco e petulante continuatore di una contesa letteraria in fondo ormai morta o quasi, un tardo-marinista-ortodosso senza grosse valenze e/o novità come scritto nel libro menzionato!
Non ti parlo per questo – aveva soggiunto il Preside – qua oramai quasi tutti hanno espresso l’intenzione di nominare, in occasione di uno dei punti del prossimo Collegio, ad Einstein la scuola, cosa rispettabilissima per carità, ci mancherebbe altro! Ma se invece, contro certe abitudini dell’oggi, valorizzassimo un nostro concittadino? E non per queste polemiche che hai menzionato ma per aver eretto qui a Ventimiglia una grande biblioteca! la prima pubblica in Liguria!“. L’affermazione mi colpì, anche se trovai ancora delle obiezioni da fare. “Sì certo….ma il Liceo è scientifico e in definitiva Aprosio era un letterato, coinvolto soprattutto in dispute letterarie“. La mia conoscenza era piuttosto ingessata entro gli studi fatti, in cui i molteplici interessi aprosiani erano in effetti repressi nel solo contesto letterario, anche per una globale trascuratezza del periodo barocco ed in particolare del suo operato.
Ma all’Aprosiana vi son anche parecchi libri scientifici, ed anche se non l’ho mai approfondita come avrei voluto so che, per esempio, Aprosio fu amico di Gian Domenico Cassini [N.d.R. = il cui primo maestro fu G. F. Aprosio di Vallecrosia e Rettore di Vallebona che lo portò a visitare la Biblioteca Aprosiana e le sue opere di astronomia-astrologia] e che lo raccomandò allo scienziato genovese Baliano o Baliani ponendo le basi per un’ascesa incredibile. Credo che con qualche indagine potresti trovare altri collegamenti, interessi aprosiani con scienza, matematica, opere naturalistiche ecc. ecc. e tutto questo sarebbe assai giovevole per l’intitolazione a tal promotore culturale d’una scuola, sia ad indirizzo umanistico che letterario“.
Non avevo potuto trovare altre contraddizioni a questa ultima affermazione del Preside, la cui competenza sul tema mi prese come suol dirsi “in contropiede”, ed alla fine, senza ritrosie od ipocrisia di facciata, ma apertamente lusingato della fiducia ripostami, avevo accettato l’incarico non senza raccogliere con attenzione il suo ultimo avvertimento “….Fammi un favore, una relazione sui molteplici interessi, anche scientifici dell’Aprosio….stendi quanto potrai e saprai fare entro un rendiconto abbastanza vasto, con le dovute note bibliografiche: magari riusciamo a far conferire il suo nome alla scuola!“.
Le motivazioni, connesse all’originalità e in qualche maniera all'”amor cittadino”, mi erano parse, benché genovese trapiantato a Ventimiglia, inoppugnabili e in qualche modo lodevoli!
Le documentazioni non me le procurai all’Aprosiana, che colpevolmente all’epoca conoscevo ben poco, ma a Genova in un contesto di relazioni culturali, maturate sia alla Biblioteca universitaria che nei diversi Istituti Universitari in cui meglio ero conosciuto. Integrai quanto sapevo in forza, e qui non posso far a meno di menzionare quella grande studiosa di biblioteconomia oltre che di storia romana, che fu la mia ex docente Angela Franca Bellezza, poi destinata a primeggiare nel contesto delle celebrazioni per il trecentenario della morte di Aprosio del 1981 [si veda dal volume citato – di cui qui è l’indice degli autori e dei saggi – l’integrale digitalizzazione del suo contributo = Angela Franca Bellezza, Fra classici greci e latini al tempo dell’Aprosio: il contributo della tipografia]: fu grazie a lei che appresi come Aprosio, grafomane certo, ma anche promotore culturale, ebbe contatti con uomini di ogni formazione culturale, sia letterati che collezionisti e, ancora, con esponenti sia della Scienza Aristotelica che della Scienza Nuova al punto di raggogliere gli scritti dei suoi poliedrici corrispondenti nell’epoca napoleonica con l’operazione Prospero Semino/-i portati da Ventimiglia a Genova nel progetto di un’istituenda Biblioteca centrale Ligure e, quindi, con la Restaurazione andati a costituire l’immenso Fondo Aprosio nella Biblioteca Universitaria di Genova. Allora non sapevo che da lì sarebbe sorta la mia “deviazione culturale” dalla Storia di Roma e da Albintimilium – che pure non dimenticai e su cui scrissi variamente- per specializzarmi nel contesto della Cultura del ‘600 giungendo a editare una serie di interventi sugli interessi scientifici aprosiani, senza escludere un’edizione critica delle Lettere del Redi.

Con l’aiuto di varie persone, che qui sarebbe lungo nominare, realizzai quanto richiestomi, persino con un certo anticipo e la relazione, che il Preside – dandomi un attestato di stima notevole – neppure volle supervisionare, fu letta tra l’apprezzamento generale e, riconosciutane la novità, fa avallata all’unanimità del Collegio, facendo sì che da allora l’anonimo Liceo Scientifico di Ventimiglia prendesse il nome attuale di “Liceo Scientifico Angelico Aprosio”.

Fui orgoglioso di quel piccolo successo, ignorando ancora l’input che mi avrebbe dato sul tema. Inaugurai le celebrazioni aprosiane del 1981, quindi fin a tempi recentissimi – con Delibera di Giunta sotto l’amministrazione Lorenzi essendo delegato alla Cultura l’appassionato e colto Gaspare Caramello, fui nominato “consulente scientifico della Biblioteca Aprosiana”, attività non priva di grandi soddisfazioni ed il cui apice – forse – si raggiunse, come qui si legge in lettera ufficiale di complimentazioni, con l’assegnazione alla stessa del prestigioso premio “Anthia” in forza dell’impegno culturale e delle pubblicazioni snodantesi tra i “Quaderni dell’Aprosiana” Vecchia e Nuova Serie per giungere alla nominazione di “Aprosiana” censita da “Italinemo-Riviste di Italianistica nel Mondo” tra le principali riviste scientifiche sul barocco. Nel contesto di queste operazioni culturali non si possono certo sottacere le scoperte dell’amico ispanista Mario Damonte (che individuò all’Aprosiana una variante delle Obras di Gongora) e di Anna Maria Mignone che scoprì un inedito del poeta iberico Juan Pablo Rizzo… dopo le sontuose celebrazioni del 2007 per il quattrocentenario della nascita di Aprosio cui variamente partecipai – contestualmente al pensionamento – lasciai l’incarico di Consulenza Scientifica…

Eppure, alla luce delle acquisizioni oggi assimilate,  riguardo della nominazione del Liceo Scientifico di Ventimiglia oggi, forse, non farei la stessa cosa: Aprosio ha già parecchie titolature in loco, a prescindere dalla Biblioteca a lui giustamente intitolata: alla luce di altre assimilazioni, per colmare un vuoto, caldeggerei un’altra nominazione, quella del parimenti grande II Bibliotecario dell’Aprosiana, quel discepolo di Aprosio, Domenico Antonio Gandolfo “il Concionator” e grandissimo sillogista di autori agostiniani, purtroppo poco e mal studiato, anche da Girolamo Rossi che pure deteneva documenti rilevanti sul personaggio; Gandolfo, che, pur nell’ammirazione per il Maestro, ne differì in quanto a postazione culturale, di modo che, pur mai trascurando l’operosità aprosiana e le relazioni sia con letterati che scienziati fu decisamente più interessato di Aprosio, a riguardo della Biblioteca Pubblica, quale un polo di attrazione e concentrazione degli autori locali verso cui, come si vedrà in altri interventi e tutto ciò anche in dipendenza di una distinta formazione culturale connessa in particolare ai rapporti del II Bibliotecario con le scuole di Maurini, Trappisti, Mechitaristi.

Qualcun altro provvederà…io fui e son soddisfatto di quanto fatto: una piccola traccia del mio passaggio è rimasta…erano altri tempi e, nonostante la possibilità di rimanere al Liceo di cui qualche nostalgia mi ha accompagnato nella vita, scelsi dall’anno dopo la solida cattedra di Italiano e Storia presso l’allora ben più grande in totale espansione -rispetto ai Licei e contro l’attuale tendenza panitaliana- date anche le congiunture epocali, Istituto per Ragionieri “Enrico Fermi” (in seguito rinunciando – dopo l’imposizione del Provveditorato e grazie all’ausilio del mai dimenticato Preside del Fermi Prof. Vinicio Maccario – con estremo stupore del buon preside del Classico Prof. Cormagi -in tempi di carenza di docenti vincitori qual ero di concorso ministeriale romano abilitati anche in greco- di passare al suo istituto attesa la carenza all’epoca di titolari di italiano, latino e greco) ove nel 2006 si è conclusa la mia sostanzialmente felice e fortunata attività di docente nei trienni superiori..

di Bartolomeo Durante in Cultura-Barocca

Ventimiglia (IM), Nervia: il culto nell’antica Albintimilium

Il Teatro Romano di Albintimilium

Come in tutto l’Impero anche ad Albintimilium [in zona Nervia dell’attuale Ventimiglia (IM)] il CULTO era curato da una precisa organizzazione (G. WISSOWA, Religion und Kultus der Romer, II ed., Monaco, pp. 482-944).

Sovraintendeva al culto il flamen che teneva a vita il titolo e controllava i sacerdoti minori.
Forse la stessa moglie del flamen prendeva nome di flaminica ( G. DUMEZIL, Le prehistoire des famines majeurs in “Rev. des relig.”, CXVIII, 1938, n. 1, pp. 188-197): ad Albintimilium secondo epigrafe del lapidario stava una flaminica (C.I.L., V, 7811).

 

A Nervia si trovò nel secolo scorso un’iscrizione di sacerdotes lanuvini.
Erano dediti al culto di Giunone Sopita, detta Lanuvina da Lanuvio, città in cui dal 417 a.C. i Latini veneravano tal dea (A. E. GORDON, The cults of Lanuvium, Berkeley, 1938; C.I.L., V, 7814: a parere di Nino Lamboglia l’intemelio Mantius, un oriundo od immigrato, avrebbe svolto in altro luogo questo sacerdozio).
Un Tertullinus supposto sacerdote Laurentino-Lavinate per praticità di lettura è studiato analizzandosi nel “Pagus civitatis” i territori di Gorbio e Roccabruna.
Secondo alcune versioni la lapide sarebbe stata trovata presso il tempio ritenuto di Diana Cacciatrice: si trattava di un reperto mutilo di un P. Metilius Tertullinus definito laur. e quindi giudicato sacerdote laurentino – lavinate. La lapide gli sarebbe stata posta da un P. Metilus Tertullinus Vennonianus (in effetti la gens Metilia era diffusa in Ventimiglia romana: C.I.L., V. V. 7822, 7825, 7861). Girolamo Rossi nella sua Storia di Ventimiglia (p. 432, n. 12) lesse lavin e scrisse :…questa lapide ora in Mentone vi fu trasportata da Ventimiglia nel 1855 in circa da un negoziante di limoni…. Secondo lo storico ventimigliese questo marmo, nel contesto dei traffici antiquari dell’epoca, sarebbe stato trafugato da Ventimiglia al pari della lapide (S. V., p. 432, n. 13) di P. Metilius Tertullinus Vennonianus appartenente alla tribù Falerna e “questore designato che ebbe un’iscrizione onorifica dalla plebs urbana albingaunensis e che dalla titolatura fu ritenuto sacerdote laurentino lavinate”. Il Rossi si dichiarò informato dallo Spotorno di questo secondo furto, di una lapide dalle interpretazioni controverse: C.I.L., V, 7782 = E. Sanguineti, Iscrizioni romane della Liguria, in “Atti della Società Ligure di Storia Patria, III, Spotorno, p.148. G.B. Spotorno, però (iscrizioni antiche d’Albenga…, Genova, G. Ferrando, 1834, pp. 16 – 28) la diede presente ad Albenga dove sarebbe stata reperita nel 1802 nella casa del Cavalier d’Asti. Tale iscrizione è registrata come ingauna nel manoscritto Castaldi Torinese: se il notaio Castaldi di Cosio la vide nel XVII secolo o cade l’ipotesi del Rossi o meno verisimilmente si dovrebbero ipotizzare manipolazioni antiquarie anche più antiche di quelle ipotizzate dal Mennella: per i riferimenti bibliografici vedi la nota 2 (pp. 248 – 249) del volume Albintimilium….

In Albintimilium non sono restate comunque tracce di rilievo su templi, sacelli o altri luoghi di culto.
Le informazioni migliori vengono dalla NECROPOLI che abbracciava a semicerchio la città sì che varie tombe, lontane dal nucleo nervino, segnalate nell’area della Stazione ferroviaria e dell’ex Convento di S. Agostino furono amalgamate con altri tipi di edifici: come ha però dimostrato GIOVANNI MENNELLA in un suo SAGGIO i dati, specie sulle lapidi funerarie, devono essere soppesati con attenzione visto il clima di difficoltà e trafugamenti in cui si dovette sempre muovere Girolamo Rossi, ispettore archeologico sul sito.
G. Rossi (Not. Sc., 1877, p. 290) annotò che nel 1865 “il muratore Natale Pistone nel gettare le fondamenta della sua casa di abitazione nel sestiere di S. Agostino, in prossimità della stazione ferroviaria, esuma alcune tombe formate di tegoloni in terracotta e trova in esse varie monete d’epoca imperiale: sulla questione interessano i ritrovamenti archeologici del 1987 nel corso di sondaggi, per la rete fognaria intemelia, nella piazza antistante la Stazione“.
Grazie alle esplorazioni sistematiche del Rossi (1880-1883), del Barocelli (1915-1917), e poi del Lamboglia, si ricostruì in linea di massima la struttura della NECROPOLI.

Scavi delle mura settentrionali di Albintimilium

Un’AREA CIMITERIALE fu scoperta ad est delle mura romane sino al torrente Nervia che, con le piene di ‘600 e ‘700, portò alla luce reperti e tombe: i titoli funerari dei personaggi più importanti vengono da questa NECROPOLI ORIENTALE, ma qui la ricerca fu sempre ardua per i rivolgimenti del terreno.
Più semplice è stato lo studio della NECROPOLI OCCIDENTALE dove le tombe erano allineate lungo un’arteria che il Rossi chiamò “VIA DEI SEPOLCRI”.
Queste stavano ai lati del percorso e non è escluso, come suppose il Lamboglia, che la locazione delle tombe procedesse sino al Roia magari accanto a strutture edili diverse poste extra moenia: il Rossi aveva già scritto del rinvenimento di “sode e robuste mura in diverse direzioni ramificate… con suppellettile” in proprietà Balestra presso il Roia (Not. Sc., 1876, p. 129 e p. 177).

Si parla anche di una NECROPOLI MERIDIONALE sviluppatasi sin a lambire la spiaggia d’epoca romana: il Rossi indicò ritrovamenti in poderi Parodi (Not. Sc., 1877, p. 290; 1884, p. 135; 1888, p. 142: tomba dedicata a Quintus Vettius Mansuetus dalla moglie Apronia Felicitas = Suppl. It., 1001, del III sec. d.C. e un’iscrizione funebre di I-II sec. d.C. letta D(is) M(anibus) / Aemilius Se/cundinus Aemi/lio Thelonic / ob. m f = S.V., p. 441, n. 32).
Ancora il Rossi scoprì materiale romano e corredi funebri nelle vicine proprietà Bianchi (Not. Sc., 1877, p.290) e De Mouchy (Ib.): ponendo le tombe, come di legge, fuori del pomerio ufficiale, i Romani sfruttarono luoghi diversi sì che i sepolcri dei benestanti stavano prossimi alla città e sempre più lontani si dislocavano quelli meno importanti.

In Ventimiglia Alta si trovarono tombe romane e tardoromane già manomesse: nel giardino del Convento delle Lateranensi (cocci e tegoloni con resti umani) e nel muro di cinta del podere che le religiose avevano dove sorgeva il Castello dei Conti (tomba decorata in smalto rosso = L.A., p. 114, n. 2). Si ebbero scoperte (1860) di tombe laterizie “in una proprietà sottostante al Castel d’Appio” e di una bella tomba in muratura “nel sito della Colla davanti alla porta del giardino Boyer” (Not. Sc., 1877, p.292); si trovarono tombe ad inumazione d’ età tarda nell’area della chiesa di S. Stefano (Id., 1901, p. 289) e nella località Maneira (“frati Maristi”) si rinvenne materiale funerario con corredi diversi.

Per tutto il territorio municipale si son scoperte tombe romane, non solo sulla linea di costa ma anche nelle valli e vallette piu interne: esse restano la testimonianza di un organismo cultuale che comportava un ricco apparato funebre sviluppatosi in relazione a un sistema di religiosità, sacerdozi e edifici “sacri”.

Le modificazioni del territorio nel tempo e gli interventi del Cristianesimo hanno cancellato le tracce dei templi pagani: il ricercatore può tuttavia proporre qualche interpretazione.
A parte gli dei Mani (di manes), evocati nelle epigrafi e che indicavano gli antenati defunti e le divinità dell’oltretomba, delle massime divinità romane sono rimaste poche tracce. Per vari motivi le testimonianze di un culto per numi specifici sono le dediche fatte a qualche dio.

Tra le lapidi sono tre dediche o ex voti: uno ad APOLLO ed uno a GIUNONE REGINA ed ancora uno ad ASCLEPIO/ESCULAPIO.
Gli ex voto ad APOLLO E GIUNONE furono trovati nelle strutture di chiese locali, dove eran stati portati nel medioevo come materiale da costruzione.
La dedica ad Apollo si scoprì presso la chiesa vallecrosina di S. Rocco [oggi di San Giovanni] e vi si legge: Apollini v(otum) s(olvit) / M(arcus) C(aius?) Anthus (CIL, V, 7810 = G. MENNELLA, L’onomastica cit., p. 13). La lapide incisa per Apollo da un tal Anthus fu murata nell’angolo del campanile e rimase incassata nel muro laterale dopo l’avanzamento della facciata della chiesa dopo lavori di ampliamento del 1908. Di recente venne smurata e posta su un piedistallo all’interno della chiesa: è un’arula votiva, sagomata sopra e sotto. Non presenta decorazioni laterali ed ha in alto il comune motivo a cuscinetti stilizzati: è in pietra della Turbia ed è di cm. 96 in altezza, 30 in larghezza e 24 in profondità. Le lettere non sono belle e il reperto pare del II sec. d.C.: v. però Nino LAMBOGLIA, La rimozione dell’ara di Apollo a San Rocco di Vallecrosia, in “R.I.I.”, N.S., IX, 1954, n. 2, pp. 40-41).

La dedica a Giunone Regina è forse la più nota epigrafe intemelia; si conserva nella cattedrale di Ventimiglia (IM), impiegata nel muro di destra, anche se prima del 1842 serviva come gradino di ingresso al modo che il Navone in visita a Ventimiglia guidato da tali “Scipione” e “Torquato” ebbe occasione di vederla e descriverla entro la lettera XIII “da Ventimiglia” della sua Passeggiata per la Liguria Occidentale (edita nel 1831 ma rimandante ad un viaggio del 1827), allorquando, dopo aver visitata la Biblioteca Aprosiana, accompagnato e guidato da “Scipione” ebbe la possibilità di visitare la città medievale e soprattutto la Cattedrale.
Si tratta di un blocco in pietra della Turbia (di cm. 30 x 100, profondo 42 cm.): le lettere, rubricate in nero, della prima ed ultima riga misurano cm. 3,2, le altre 2,3 cm. (vedi A. CASSINI, Illustrazione della lapide “Iunoni Reginae” che si conserva nella cattedrale di Ventimiglia, Albenga, 1854, pp. 1-121).
Nonostante le perplessità sul reperto è utile proporre la lettura datane dal Mommsen che la esaminò col Rossi = I.L.I., I, nel CIL, V, 7811: “Iunoni Reginae sacr(um) / ob honorem memoriamque verginiae P(ublii) f(iliae) / Paternae P(ublius) Verginius Rhodion Iib(ertus) nomine / suo et Metiliae Tertullinae Flaminic(ae) uxoris / suae et liberorum suorum verginiorum Quieti / Paternae Restitutae et Q(uietae) / s(ua) p(ecunia) p(osuit)”.
Contro l’ipotesi del Rossi, Nino Lamboglia notò che l’epigrafe non prova un tempio pagano a Giunone sul luogo della cattedrale; l’iscrizione, come attesta anche lo Snale, è votiva e perciò doveva essere apposta “ad un simulacro o ad altra offerta votiva mobile piuttosto che ad un tempio o sacello” (R.I.I., 1938, p. 177). Fu recuperata in epoca medievale da qualche rudere romano: l’erudito Aprosio non ne fece cenno, a differenza delle sue consuetudini, a testimonianza che nel ‘600 la lapide doveva essere inidentificabile anche ad un osservatore noriamente attento quanto lui era.
Resta curiosa la singolarità che la moglie di un liberto sia stata insignita del titolo di flaminica: si può pensare col Lamboglia che Metilia Tertullina abbia conservato un titolo proprio della famiglia intemelia di rango equestre dei “Metilii Tertullini“.
Nel 1884 si sarebbe scoperta al margine ovest di Ventimiglia romana in podere Parodi un’arula votiva in pietra della Turbia con caratteri del III sec. d.C. dove si legge Iulius / Geminian(us) / cum suis / v(otum) s(olvit) / libens merito (Museo Arch. di Ventimiglia = Suppl. Ital., 982). E’ un’iscrizione sacra che il donatore, esprimendo riconoscenza (libens merito), offriva ad una divinità. Non si sa qual fosse il dio: il voto è generico, riguardante “Iulius Geminianus e famiglia (cum suis)”, ma l’arula (cm. 65 x 32 x 27) non era, come spesso accadeva, tutto il dono: nella parte superiore si riconoscono i segni per l’infissione di una perduta statuetta, quasi certamente il simulacro della divinita beneficatrice.
Secondo l’uso romano questa piccola ara poteva sorgere vicino ad un tempio, ma poteva esser stata posta pure in una zona pubblica, come giardini o terme, o addirittura nell’abitazione del dedicante.

 

da Cultura-Barocca

Ventimiglia (IM), Nervia: cenni sull’antica Albintimilium

Albintimilium: il decumano massimo

La POPOLAZIONE DI ALBINTIMILIUM [a Ventimiglia (IM), zona Nervia] è in parte documentabile attraverso i reperti epigrafici (in gran parte ma non solo reperibili attraverso lo studio delle LAPIDI FUNEBRI testimonianza basilare di quelle TRADIZIONI ROMANE DI SEPOLTURA che affascinò da sempre gli studiosi del passato compreso il ventimigliese Angelico Aprosio) tenute sempre le doverose CAUTELE SCIENTIFICHE DI ANALISI E INTERPRETAZIONE CRITICA.
Giova precisare che l’onomastica latina si vale dei tria nomina (3 nomi). Il praenomen, spesso abbreviato, veniva dato al bambino il nono giorno dopo la nascita, alle femmine (raramente) l’ottavo (MACROB., “Sat.”, I, 16, 36). Ai maschi era imposto ufficialmente quando indossavano la toga virile. Al secondo compariva il nomen designante la gente di appartenenza; questo non si abbreviavia e da solo o seguito da un cognomen costituiva il nome della donna libera. Così la schiava affrancata (liberta) prendeva come nome il gentilizio del padrone. Il cognomen, di uso più recente, derivò da un soprannome individuale relativo a peculiarità di vario genere: fisiche (Longus), di origine (Antias, Ligus). Dal I sec. fu esteso ai liberti che assunsero col gentilizio il praenomen del patrono mantenendo in terza sede il loro nome personale: “L(ucius)” (nome del vecchio padrone) “Flavius” (gentilizio dell’ex padrone) “Primigenius” (nome personale dell ex schiavo). Vedi I. CALABI LIMENTANI, Epigrafia Latina, Varese-Milano, 1968, pp. 155 sgg.

Albintimilium: scavi delle Terme

Sulla base del LAPIDARIO, nonostante il ridimensionamento patito (comunque meno sostanziale di quanto in prima istanza affermato e certo più quantitativo che qualitativo), si evince che sotto il profilo demico la città era popolosa ma alta vi era la mortalità infantile e in giovane età, se il 30% delle iscrizioni note appartiene a persone d’età inferiore ai 25 anni.
Commoventi nella semplicita delle espressioni sono le lapidi dei i piccoli defunti: sono pure numerose le iscrizioni di giovani donne per cui si specifica l’età alla morte mentre altre non riportano tale precisazione ma non eliminano il sospetto che possa trattarsi di morte precoce.
Il numero maggiore di persone defunte giovani spetta, però, per quanto concerne il materiale disponibile, a uomini di eta tra i 14 e i 25 anni. In genere si trattò di morti naturali, spesso provocate da agenti patogeni.
Dopo i 25 anni, completata la selezione tra individui sani e malati, i casi di morte prima dei 40 anni sono limitati: dopo i 40 anni non compaiono lapidi con l’eta del morto.

Dal lato onomastico la popolazione di “Albintimilium” era composita [Utile guida: G. MENNELLA, L’onomastica latina nelle epigrafi intemelie, ingaune e sabazie, in “Atti della Soc. Savonese di St. Patria”, N.S., XIV (1980), pp. 5-23].
Si nota che accanto a famiglie dalla buona onomastica latina stanno gentilizi di origine locale e greca. Alcuni cognomina greci, avendo nomen e praenomen latini, tradiscono un’origine servile.
In altri casi sembrerebbe trattarsi di commercianti di ambiente greco. Dati i rapporti commerciali tra lambiente greco-ligure non è da scartare l’ipotesi che questi si siano fermati colle famiglie ad Albintimilium per curare i traffici .

Buoni gentilizi latini appaiono le forme: “Aelia, Aemilia, Afrania, Albucia, Allia, Antonia, Apronia, Asinia, Atilia, Aurelia, [Aurinia], Avelia, Avidia, Axia, Billinia (Billenia – Bellenia), Bittia, Caninia, Claudia, Coelia, Cominia (-sia), Considia, Cornelia, Domitia, Flavia, Fonteja, Iulia, Iunia, Licinia, Lollia, Lucretia, Maia, Manilia, Mantia, Marcia, Messia, Metilia, Mettia, Minicia, Minucia, Mummia, Nonia, Octavia, Polfenia, Pompeia, Pomponia, Porcia, Suburia, Salvia, Sextia, Statoria, Trassaria (?), Valeria, Vettia, Verginia”.
Molte gentes di Albintimilium” si riscontrano nella X regio e cioe nella Venetia, nell’ area di Aquilea, Trieste e dell’entroterra di Venezia.
Nell’XI regio v’è rapporto particolare coll'”ager” dell’antica Milano. Invece, nelle IX regio, si hanno corrispondenze coll’onomastica di Genova, Industria ed Albingaunum.
Più forte di tutte è la convergenza coll’onomastica di “Cemenelum”.

Gentilizi propri di Albintimilium sono Billenius e Apronius di cui sopravvivono i derivati/ volgarizzati Beglia ed Aprosio specie nei siti di Camporosso e Vallecrosia.

Parecchi cognomina sono di Greci, alcuni dei quali furono schiavi poi affrancati. Quelli per cui la condizione di liberti (cioè ex servi) è ammessa sono: “Anopte (?), Lisia, Lucida, Luciferus, Rhodion, Zenio”.
Altri nomi di origine greca od orientalizzante sono: “Asclepiades, Agathonis, Anthus, Baraco, Citera, Cerino, Coeranis, Dioscurus, Demetrius, Epagathus, Genethlius, Heliodorus, Helius, Helias, Helphis, Lycoris, Lysistrata, Nicena, Mithridates, Pamphilus, Protecteto, Psaechas, Symposius, Sinemne, Syntychenis, Thallusa, Tigris, Trophimus”.
Tra le lapidi del “Corpus” intemelio, ne compare una del II sec. d.C., belle lettere a fattura elegante, che tradisce l’origine servile dei beneficiari: vi sono menzionati i nomi greci “Hedistus, Euposia, Thesmo”.
Ex schiavo, dall’onomastica latino/ italica fu Lucius Flavius Primigenius.
Cognomina attestanti onomastica gallo-ligure furono già segnalati dal Rossi. Tra questi si ricordano: “Adreho (o Adreito? ), Alpinus, Capriola, Exomnacius, Ligus [in più testimonianze], Montana, Sentro, Urbicus, Uxsubia”.
“Procula” appartiene ad una onomastica arcaica, tipica dell’Italia centrale.
Tra gli altri cognomina, latino/italici, si ricordano: “Agricola (?), Allianus, Amabilis, Amoena, Anfus, Appia, Arocus (= Arogus), Bassus, Canuleius, Catulla, Cerdus, Clemens, Crescens, Cupitus, Felicitas, Firmus, Florus, Frequiens, Fuscina, Geminianus, Hilarus, Iucundilla, Lallus, Lucanus, Lucretianus, Macro, Maximus, Mansuetus, Marcellus, Maritimus, Marullina, Nepos, Novicus, Paternus (-a), Polla, Primigenius, Primitivus, Primus, Priscus (-a), Quarta, Quieta (-us), Restitutus (-a), Rufus, Secundinus, Secundus (-a), Severus (-a), Sippus, Tertia, Tertulla, Tertullinus (-a), Tranquillinus (-a), Tranquillus, Urbicus”.
E’ da ricordare il “cognomen Karicus” volutamente arcaico rispetto alla forma comune nell’Italia antica, “Caricus”.
“Felicitas” è forse un “agnomen”; potrebbe esserlo pure “Uxsubia” ma potrebbe anche trattarsi di un “cognomen ex origine” dall’etnico dei Liguri Oxsubii, le cui stazioni non stavano lontano dal territorio intemelio: “I.L.I.”, D. 143, n. 49 = CIL, V, 7782.
I gentilizi più comuni ad ” ” sono Metilia e Apronia, oltre a Iulia e Iunia.
Tra i cognomina son tante le forme in -llinus (-a) e quelle tipiche d’area ligure come Paternus, Restitutus (-a), Secundus (-a), Severus (-a) e il cognome di origine Ligus.
In area ligure si ha un Paternus Albing(auno), in CIL, VI, 32638 a: Secundus si trova ad Albenga (CIL, V, 7798) e Vada Sabatia (CIL, V, 7776 a, 7778). Severus ad Albenga (“R.I.I.”, 1971, p. 1; “A.A.S.T.”, 1932-33, p. 41) e Vada Sabatia (CIL,V, 7779).

L’onomastica intemelia ha rapporti con quella di altri centri liguri.
Pare più interessante il numero di riscontri onomastici colla X regio e soprattutto coll’area di Aquileia. La grandezza di questa città giustifica un numero considerevole di gentilizi e “cognomina”: tuttavia oltre al fatto, importante, che tutti quelli di Ventimiglia sono documentati in tale zona, bisogna ricordare che il “cognomen Capriola ” compare solo ad “Albintimilium” e ad Aquileia.

Il gentilizio Maia compare solo, oltre che a Ventimiglia, a Dertona, (IX regio) e a Trieste, nella X la stessa di Aquileia; per quanto concerne la lapide (del III secolo) scoperta a Ventimiglia, essa fu eretta dai genitori per la figlioletta Maia Paterna, morta a soli 11 anni: essi, per onorare la bimba con una lastra di buon valore, fecero utilizzare dal lapicida il retro di un’iscrizione del I secolo, di un certo Publius Nonius Primus che l’aveva fatta realizzare e sistemare onde interdire l’accesso, per quanti non fossero graditi, ad una sua via privata (vedi “Rivista Ingauna Intemelia”, 1938, pp. 169 – 170).

Un tratto di lastricato della Via Iulia Augusta riposizionato sul bastione del cavalcavia di Nervia

La Julia Augusta (dal 13 a.C. punto nodale del sistema viario romano di nord-ovest) era l’esempio storico di quella valenza stradale romana che in Italia fu dopo le invasioni barbariche abbandonata al degrado, inibendo le facilità di comunicazione: si sarebbe dovuti salire nel tempo fino al XIX secolo, per avere una sua restaurazione o duplicazione in grado, nel suo come nel caso d’altre assi stradali italiane, di supportare un vero e proprio traffico di carriaggi e non solo di muli, carovane di muli o cavalli.
La Julia Augusta, scendendo da nord faceva capo al nodo di AQUAE STATIELLAE (oggi Acqui Terme), superava Canalicum (Cairo Montenotte) e raggiungeva Vada Sabatia sostituendo la via Aurelia nel viaggio verso le Gallie: la sua deviazione verso l’area subpadana di Acqui e di Augusta Bagiennorum (Benevagienna) era di grande importanza commerciale e sono utili i confronti con i reperti romani di Aquae Statiellae e di centri vicini del Piemonte.
L’Aurelia, prosecuzione costiera della Julia Augusta verso levante dopo Vada Sabatia prima di Genova si congiungeva con la via Postumia, che proveniva dalle regioni nord-orientali d’Italia e, superato il territorio di Libarna, arrivava a comunicare con la via di litorale nel cardine di Figlinae, a ponente di Genova.
Questa arteria fu un itinerario commerciale tra Liguria e Venezie: tramite essa arrivavano in Liguria i prodotti dell’importante centro commerciale e industriale di Aquileia.
Oltre le dimostrate convergenze di onomastica per provare questi scambi commerciali (con la conseguenza di incontri socio-culturali), basta ricordare che insieme a bolli di produttori di Roma impressi su anfore od urne cinerarie e a bolli o timbri attestanti opifici locali, nel territorio di “Albintimilium” si trovarono tegoli di ottima fattura su cui erano impressi bolli laterizi con lettere e nessi propri di marchi simili letti ad Aquileia: come il nesso “MNV”, con “N” e “V” legate, che risulta assai vicino al bollo “MNV SAE” di Aquileia (“Suppl. It.”, 100) che presenta ulteriori identità di fattura (P. BAROCELLI, Albintimilium, col. 107 sgg.) con i reperti di Ventimiglia.
Oltre queste grandi linee commerciali avevano importanza molti PERCORSI ALTERNATIVI che mettevano in comunicazione l’agro intemelio sia col Basso Piemonte che con la zona di “Costa Beleni” e quindi col municipio di Albintimilium: come si evince ancora da carte del XVIII secolo, oltre che la LINEA LIGURE DI MEZZACOSTA un’importanza fondamentale per superare l’oltregiogo era la VIA DEL NERVIA e tutte le INTERSEZIONI con altri tragitti che essa rendeva possibili in alta valle: e tra questi tragitti un ruolo primario aveva il PERCORSO che risaliva dall’area di Taggia e di Costa Beleni.

da Cultura-Barocca

Urbs Ingens est Albion Intemelium … Albintimilium è una città grande…

Ventimiglia (IM) – Teatro Romano

Urbs Ingens est Albion Intemelium … Albintimilium è una città grande…
scrisse il geografo Strabone quasi duemila anni fa = e non senza ragione l’erudito seicentesco Angelico Aprosio riprese in questo passo di una sua opera basilare la definizione per cui
“Ventimiglia Romana era da considerarsi una città grande”
anche se poi destinata al pari della mitica Troia a svanire dalla vista degli uomini per secoli e secoli sì che ancora nel XIX secolo il suo nucleo principale giaceva sotto la sabbia là dove per primo proprio Aprosio aveva intuito esservi sulla base di vari ritrovamenti e del resto Aprosio come si legge nelle sue Antichità di Ventimiglia oltre a dover confrontarsi con quanti in loco volevano che la sede del più grande complesso demico del municipio imperiale di Albintimilium, vale a dire della
città romana monumentale con mura, foro, teatro, terme, ville, insulae ecc. non fosse a Nervia di Ventimiglia (come giustamente egli sosteneva da sempre o quasi)
ma ebbe anche la necessità di confrontarsi pure con una tradizione filologica italiana e soprattutto straniera che giudicava come la matrice reale di Ventimiglia Romana fosse da identificarsi in una
leggendaria e parimenti perduta città di “Tempio” (Templum).

Tavola di Peutinger

Del resto come è fuor di dubbio che fatte le debite considerazioni sussiste consonanza tra il paesaggio della leggendaria città omerica come vide il Visconte di Marcellus e la stessa Ventimiglia Romana o meglio il territorio sotto cui giaceva la sua parte monumentale come per secoli la si vide del pari per vari aspetti altrettante ragioni spettavano a
Strabone anche a dare questa definizione della città romana di Ventimiglia o meglio del più esteso complesso municipale di Albintimilium vista anche la registrazione demica nelle carte geografiche imperiale come nel caso della sopra riportata Peutingeriana.
Già ad una visualizzazione dal mare il complesso urbano sarebbe parso un continuum insediativo che si estendeva ad oriente e ad occidente della città quadrata indubbiamente piccola ove stava quella che potremmo dire la “capitale nervina” di Albintimilium e similmente l’antica cartografia propone rilevazioni non su un centro piccolo quanto su una città minore sì ma disposta in linea retta per uno spazio abbastanza grande lungo il percorso della via Iulia Augusta per la non piccola area municipale.
Il territorio amministrativo di spettanza del municipio imperiale di Albintimilium [probemi e opinioni diverse esistono sia per l’esatta identificazione del confine occidentale del territorio amministrativo di Albintimilium come a proposito del confine orientale, come qui si legge di seguito, nell’areale dell’odierna Sanremo (San Remo)] dalla “capitale nervina” si estendeva fino a Monaco, penetrava saldamente nell’interno ligure sino ai limiti del Cuneese e fissava nell’area dell ‘attuale Sanremo (san Remo) i suoi confini orientali
[è da precisare che all’uso romano nelle conquiste e poi nella organizzazione delle città in Italia il municipio prendeva nome dal centro demico o città principale strutturato dalla cultura locale e sviluppatosi autonomamente (nel caso arroccato all’altura detta tuttora di Colla Sgarba sovrastante Nervia di Ventimiglia e mediamente legato al popolo guida locale: nel caso gli Intemelii) ma che si estendeva amministrativamente su un territorio molto vasto che entrava magari nella cultura del popolo conquistato che si identificò per un certo tempo con tale capitale ancestrale come, qui, nel caso di Nervia di Ventimiglia preesistente alla conquista romana ma affiancata –in attesa di una romanizzazione più o meno celere– dalla realizzazione di una efficiente struttura romana in pianura, predemica e murata, originariamente di pianta castrense e poi comunque militare: divenute inutili le mura con la piena romanizzazione vennero dirute od inglobate nella rapida e vivace espansione urbanistica e conseguentemente nella fusione del nucleo antico con quello moderno dei conquistatori].

Così di fatto l’odierna Ventimiglia (IM), nel nome alterato ma mantenuto attraverso i secoli e soprattutto nella sostanza giurisdizionale sancita dalla cinta muraria o pomerio, era di fatto la capitale dell’omonima e ben più vasta entità amministrativa che, secondo una partizione poi replicata, e dopo la caduta di Roma divenuta un’alternativa amministrativa oltre che religiosa, di tipo diocesano o provinciale, coinvolgeva vari altri centri, destinati molto tempo dopo ad avere nome e storia autonomi, quali, tra tanti, Mentone, Roquebrune, La Turbie, Saorge, Camporosso, Dolceacqua (analizza e scorri qui il mappale multimediale sin all’Oltregiogo) quindi ancora Vallecrosia e Bordighera, con il retroterra (vedi anche qui il mappale con le valli del Crosa, di Borghetto-Vallebona ed’altre diramazioni ancora) e via discorrendo = tutto un complesso agro-residenziale stava poi seppur alquanto più rarefatto nell’entroterra dando da lontano l’impressione di un insediamento unico e vasto: e così come nell’area di Costa Balena – Costa Beleni e Campomarzio stava una successione di ville rurali o pseudorustiche al punto da dare l’idea d’un solo complesso demico di cui indubbiamente son rimaste attestazioni archeologiche superiori, del pari, se non a maggior ragione, risultava per l’osservatore defilato il territorio rustico interno rispetto al suburbio orientale che occidentale di Albintimilium rispetto al complesso demico in qualche maniera “capoluogo” dell’area municipale sito a Nervia di Ventimiglia (e naturalmente alla sua “continuazione” nei suburbi costieri in linea con la via Iulia Augusta ) strutturato sulla scia di percorsi secondari su siti in genere vicini a sorgenti o a rifornimenti d’acqua come nel caso di Seborga)
In questo lavoro si sono volute riannodare le fila di un proliferare di luoghi e centri di vita tali da suggerire a Strabone l’idea di un’unica vasta città dipartentesi dal corpo compatto di Ventimiglia per tutto il tessuto municipale sotto la forma di insediamenti ora esili orà più sostanziosi, sempre in contatto fra loro in virtù di una rete viaria assai evoluta sotto l’aspetto tecnico e caratterizzata dalla presenza di ville pseudourbane o rurali, a volte relativamente isolate ma circondate da giardini, campi se non da edifici minori.
In effetti se la località intemelia di Nervia conserva monumenti importanti di epoca romana e se gli scavi archeologici vi hanno evidenziato tracce addirittura sontuose di vita sociale e di relazione, il suburbio di questa “capitale” (grossomodo la periferia o, se usiamo un’equivalente accezione usata già da Nino Lamboglia, il Pagus Civitatis) non manca di “segnali” importanti lasciati dalla civiltà imperiale, che talora sfuggono per il relativo isolamento ma che sorprendono ed affascinano se vengono posti in relazione tra loro e con il centro principale, nella volontà di ricostruire una mappa ed una topografia del municipio romano.
Albintimilium, inteso sotto il più corretto profilo giuridico di “vasto complesso amministrativo”, risulta ad analisi compiuta un’area straordinariamente densa, compatta e ricca di ricordi di romanità, nodo di interminabili traffici tra Italia e Gallie come tra Piemonte e Liguria, luogo di incontro tra culture greco-orientali, centroitaliche, pedemontane, franco-iberiche e poi germaniche.

da Cultura-Barocca

Un servizio da viaggio dell’antica Roma

Il SERVIZIO DA VIAGGIO della dotazione archeologica Albintimilium fu trovato nel 1917 dall’archeologo Pietro Barocelli nella tomba 142 della necropoli di Nervia in Ventimiglia e l’immagine è tratta dal volume di B. DURANTE-M. DE APOLLONIA, Albintimilium antico municipio romano, Gribaudo [quindi Paravia-Gribaudo, poi Paramond], 1989.
Dai tempi della scoperta vari ricercatori giudicarono l’ “attrezzo” un unicum, “indice di un eccezionale progresso tecnologico dei Romani”: un livello tecnologico che forse attualmente né la storiografia né l’archeologia hanno ancora determinato nei veri contenuti (basti pensare, a modo d’esempio alternativo, all’ impensabile tecnologia rinvenuta tra i RELITTI DELLE NAVI DEL LAGO DI NEMI)
A livello di riflessioni scientifiche ed antiquarie si impongono alcuni interrogativi: fattura e tipologia dello strumento comportano problemi non semplici.
Secondo le fonti letterarie il “servizio” urta con la tradizione che data al XIII sec. la diffusione della forchetta, attribuendo ai Romani solo quella del cucchiaio.
La tecnica di fusione, il meccanismo di oggetti ruotanti su in origine parevano stridere con una certa ma oggi discussa interpretazione antiquaria e con il giudizio sul livello tecnologico che si riteneva raggiunto durante l’Impero: l’uso dell’imperfetto oggi quasi si ampone atteso l’insorgere di dubbi crescenti anche se non soprattutto in forza di ritrovamenti, specie subacquei quanto recenti, di meccanismi particolarmente complessi ed evoluti.
Il “servizio” del resto fu scoperto in una tomba intatta versomilmente del II sec. d.C. da uno studioso serio, che operava in un contesto di ricerca assai più evoluto e garantista di quello pregresso = fu ritrovato nella tomba 142 (a cremazione in urna di piombo: erroneamente in Albintimilium antico municipio Romano si indicò la 145) della necropoli occidentale, con un corredo costituito da due olpi, una coppa vitrea, un ago crinale, un cucchiaio d’argento, alcuni chiodi. All’interno di un manico d’argento realizzato con tre lamine lavorate e tra loro compattate, risultano inserti con proprietà di rotazione 7 distinti elementi con diverse funzioni: cucchiaio (ligula), colino (colum), nettaorecchie (auriscalpium), punteruolo, forchetta, nettadenti (?), coltello.

Su questo servizio da viaggio sono da considerare varie possibilità ed altre ancora se ne potrebbero formulare.
Una mente geniale di un artefice eccellente avrebbe forse potuto forgiare un oggetto tanto prezioso che sembrerebbe comportare ingegnosa committenza e preciso progetto: il restante corredo funerario per quanto di discreta qualità si scontrava comunque con la ricchezza del “servizio in argento”, che, di per sé, avrebbe potuto essere espressione di eccelso stato sociale.
L’urto fra tante considerazioni ha suggerito varie ipotesi: da quelle “conservatrici” (che l’oggetto per la preziosità sia stato voluto nel corredo funebre dal defunto che potrebbe averne fatto un “monumento” della sua condizione sociale) a quelle “mediane” e “negazioniste” (che sia stato celato per varie ragioni, come un furto non completato, in una tomba già nell’antichità, oppure che vi sia stato nascosto più tardi quando almeno la “forchetta”, non il meccanismo che si presenta nel moderno aspetto di congegno “multiuso” da sopravvivenza, era di uso comune = cose queste però urtanti con il fatto che la tomba in alcun modo risultava manomessa) da altre decisamente più moderne che atteso l’anonimato della tomba il defunto sia stato non un residente della città ma uno dei tanti mercanti che per essa passavano o si fermavano e che colto da morte sia stato inumato, con altri reperti di poco valore, con l’oggetto più significativo del suo bagaglio, quasi fosse un marcatore del suo essere sociale e personale.
Affermare senza infiniti controlli la genuinità romana dell’oggetto equivale a sostenere una realtà tecnica del Primo Impero di impressionante potenza sociologica e dirompente sotto il profilo dell’arte, dell’oreficeria, della tecnologia imperiali (cosa quindi di rilevanza internazionale: ma come appena scritto sempre più avvalorata da altri e più recenti ritrovamenti).
Chi scrive queste note, tuttavia, è favorevole a sostenere l’AUTENTICITA’ dell’oggetto, sulla linea, sempre più comprovata da altre scoperte straordinarie che la storiografia e l’archeologia vanno portando avanti.
Peraltro in questo caso non vale l’ipotesi che, come contro G. Rossi l’archeologo scopritore di Ventimiglia romana, anche a scapito del Barocelli si sia resa necessaria una rivisitazione dei ritrovamenti del lapidario e di certa oggettistica romana: in effetti se per il Rossi l’ipotesi non è ingannevole, visti i suoi scontri con alcuni scorretti antiquari ma nel caso del Barocelli -comunque più tutelato dallo stato più recente dei tempi, dalla tipologia del suo incarico e dallo sviluppo dell’archeologia- sarebbe un assurdo in quanto l’eccezionalità del reperto lo indusse a porlo sotto una tutela continuata inviolabilmente nel tempo.

da Cultura-Barocca

La morte a Ventimiglia di Iulia Procilla

Uno scorcio della zona di Latte a Ventimiglia (IM)

L’Impero, dopo la morte di Nerone, fu travolto da crisi istituzionale la cui risultante immediata fu la lotta fra diversi pretendenti al trono: tra il 68 ed il 69 d.C. Galba, Otone e Vitellio si combatterono per giungere al potere.
Caduto Galba, forse il migliore dei tre, i generali di Otone marciarono per la Liguria occidentale. Li aspettava un vitelliano intransigente , il procuratore delle Alpi Marittime Mario Maturo, che, fatta una leva tra i suoi amministrati, mosse contro gli otoniani .
I soldati regolari ebbero la meglio sull’ esercito di Maturo, costituito da inopes agrestes et vilia arma (contadini male armati): però i legionari di Otone più che alla vittoria ambivano al bottino e, non trovandolo tra gli sconfitti vitelliani, marciarono verso il municipio intemelio, puntando soprattutto al nucleo urbano di Ventimiglia Romana.
Saccheggiarono i campi, il suburbio ed il nucleo urbano di Albintimilium: la capitale nervina fu distrutta e tante proprietà vennero devastate.
Tacito elencò le violenze compiute a Ventimiglia dagli Otoniani poiché la madre di suo suocero Agricola, la nobile IULIA PROCILLA, perse la vita, assieme a molte altre persone, in un suo podere nell’agro intemelio. Una tradizione, senza dati specifici ma avvalorata da RITROVAMENTI DI ROMANITA’ IN VARIE EPOCHE,  ipotizza che i poderi della donna sorgessero nel sito di LATTE, denominato, come altri, Villa Martis – MA CERTO LUOGO DI VILLEGGIATURA STORICA, CON VILLE RESIDENZIALI, PER I RESIDENTI SIA DI ALBINTIMILIUM CHE DELLA FUTURA VENTIMIGLIA – e che lì la donna sia stata assassinata.
I solenni funerali della donna si tennero poi nella città colpita dall’invasione “otoniana”.
Non si esclude, dato il prestigio sociale e militare di Agricola, che proprio questi abbia risollevato le sorti del territorio intemelio, contribuendo alla ricostruzione della distrutta città [Tacito (Agr., 43, 1) ricorda la popolarità di Agricola: alla notizia della sua morte “anche la folla e il popolo di Roma nonostante la sua indifferenza, andò frequentemente davanti alla sua dimora e parlò di lui sui luoghi e nei gruppi”. Del resto la fama di guerriero, invitto e leale, lo accompagno per l’esistenza].
Senza omettere l’intervento dello Stato che, scomparsi Otone e Vitellio, trovò nel primo esponente della nuova dinastia imperiale Flavia, Vespasiano, una guida salda oltre che un restauratore della pace.

Dopo la distruzione degli “otoniani”, il Municipio di frontiera godette di un lungo periodo di tranquillità cui diedero avvento gli imperatori della casata Flavia: PACE, che si esaltò in uno splendore di trionfi sotto molti imperatori della “Dinastia detta degli Imperatori per adozione, quando in particolare l’IMPERO raggiunse la sua MASSIMA ESPANSIONE sotto TRAIANO ed il suo ESTREMO SPLENDORE ESISTENZIALE, SOCIO-ECONOMICO e MONUMENTALE sotto ADRIANO (momenti storici di cui Ventimiglia Romana, data anche la posizione importante dal lato commerciale verso le Spagne e le Gallie usufruì notevolmente in un’esplosione demografica, urbanistica, di interventi pubblici e di realizzazioni monumentali di utilità privata e pubblica).

Così dopo i fatti del I sec. d.C. la storia non attribuisce eventi particolari ad Albintimilium che si avvantaggiò di questa situazione storica e della sua postazione commerciale, viaria e marittima, che le permetteva di diventare un NODO SEMPRE PIU’ RICCO ED IMPORTANTE visto anche l’incremento dei traffici commerciali con le Gallie e le Spagne diventate importantissime basi commerciali ed industriali, autentici polmoni economici occidentali del vasto Impero ed i cui grandi impresari non potevano far a meno di valutare la positura geografico stradale e portuale di Ventimiglia Romana destinata ad arricchirsi, in un fervore di iniziative urbanistiche rese necessarie dal notevole incremento demografico dipendente anche dal considerevole rilievo dell’immigrazione nella città di tanti operatori commerciali (di cui si ha traccia nelle lapidi scoperte) venuti in queste contrade a porre le basi per qualche azienda commerciale di terre lontane.
Albintimilium sarebbe entrata in crisi solo molto dopo, con la decadenza dell’Impero e con l’avvento dei barbari invasori: ma nulla avrebbe potuto cancellare la splendore di tanti edifici e monumenti sommersi per secoli dalla sabbia eolica ed alluvionale ma poi, seppur faticosamente e solo in parte (ma nell’auspicio di nuovi ritrovamenti) riportati alla luce da una serie di moderne e fauste campagne di scavi archeologici.

da Cultura-Barocca